di ANTONIO GOZZI
Una pagina di resistenza al nazifascismo poco conosciuta e poco valorizzata è quella relativa alla vicenda di centinaia di migliaia di militari italiani catturati dai tedeschi sui vari fronti di guerra dopo l’8 settembre 1943. Ne riportiamo su questo numero un tragico frammento anche nella ricostruzione di Getto Viarengo sul naufragio del piroscafo ‘Oria’ nel mar Egeo.
All’8 settembre, giorno dell’armistizio con gli Alleati, l’esercito italiano si trovò privo di direttive precise. Abbandonati a se stessi dal re e dal governo di Badoglio, soldati e ufficiali italiani dovettero fronteggiare l’organizzata reazione tedesca.
Salvo alcuni episodi circoscritti e terminati nel sangue come quello dei martiri di Cefalonia che morirono in Grecia combattendo i nazisti, in generale i reparti italiani furono disarmati e fatti prigionieri dove si trovavano, dalla Francia ai Balcani all’Europa Orientale.
Soltanto nell’Italia settentrionale furono catturati non meno di 100.000 militari.
Stipati in carri bestiame, chiamati in senso dispregiativo ‘badogliani’, non ricevettero la qualifica di ‘prigionieri di guerra’, ma quella di ‘Internati militari italiani’ (IMI). Tale qualifica ebbe come pratica conseguenza nei loro confronti quella della non-applicazione della Convenzione di Ginevra, e della mancata assistenza della Croce Rossa Internazionale. In altri termini, le condizioni dei deportati italiani furono molto peggiori di quelle dei normali prigionieri di guerra.
Il loro numero non è ancora del tutto accertato. A seconda dei vari studi e fonti di informazione, la cifra oscilla tra i 650.000 e i 700.000.
Tutti i militari internati vennero messi di fronte a un’alternativa secca: la prigionia con il lavoro forzato e tutte le sue incertezze o l’adesione al nazifascismo (ausiliari delle truppe tedesche o rientro in patria come combattenti per la Repubblica Sociale Italiana).
Meno del 15% scelse quest’ultima soluzione.
Questo gesto di rifiuto e di ribellione di massa secondo alcune interpretazioni può essere considerato storicamente come il primo atto di Resistenza, in quanto praticato prima della dichiarazione di co-belligeranza tra il Regno del Sud e gli Alleati, che risale al 13 ottobre del 1943, e prima dell’inizio della lotta partigiana.
Indubbiamente questo rifiuto fu il frutto di molteplici motivazioni. In alcuni casi fu una valutazione consapevole, in altri prevalsero ragioni diverse, come il non voler tornare a combattere, o la preoccupazione di venir tacciati di collaborazionismo.
In anni passati ho raccolto la testimonianza di mio padre, Renato Mario Gozzi, oggi scomparso, allora sottotenente del Regio Esercito, arrestato a Brescia il 9 settembre 1943, internato in vari campi di concentramento dopo viaggi tremendi su carri bestiame in cui centinaia di uomini venivano ammassati senza pietà, talvolta senza poter scendere per tre o quattro giorni.
La motivazione di cui mi parlò lui era il rifiuto, lo schifo di dover avere ancora a che fare con il fascismo, quasi una scelta metapolitica, esistenziale. Del resto, quale cultura politica poteva avere un ragazzo di 24 anni educato nelle scuole dell’Italia fascista?
Una ribellione ed un rifiuto istintivi, quindi, una volontà di chiudere per sempre con il fascismo, nonostante gli stenti terribili della prigionia, le incognite per il futuro e la struggente malinconia di casa.
Se è vero che l’Italia libera nacque dalla presa di coscienza individuale e collettiva degli orrori della guerra e del nazifascismo, l’atteggiamento di quegli uomini e di quei giovani che nella stragrande maggioranza scelsero di non aderire, può essere effettivamente considerata una pagina di Resistenza.
Molti morirono di fame e di stenti, o uccisi per banali ragioni dalle sentinelle tedesche: negli ultimi mesi, bambini di 12-13 anni della Hitlerjugend, che falciarono a colpi di mitra molti prigionieri italiani che, violando il regolamento, appendevano il bucato al filo spinato del campo.
Si ritiene che i decessi furono quasi 60.000, il dieci per cento di quelli che avevano rifiutato la collaborazione con i nazifascisti.