di ANTONIO GOZZI
Confindustria ha assunto una posizione critica sulle dichiarazioni programmatiche fatte da Ursula Von der Leyen al Parlamento europeo prima della sua elezione a Presidente della Commissione. Visto dalla prospettiva dell’industria, specie quella di base e energivora, l’esercizio di equilibrismo sulle politiche ambientali fatto dalla riconfermata presidente ha la stessa visione ideologica del passato ed è assolutamente deludente proprio perché non si nota alcuna discontinuità dall’“era Timmermans”.
Confermare l’obiettivo della riduzione del 90% delle emissioni di CO2 al 2040 senza domandarsi chi pagherà la fattura della decarbonizzazione e quali saranno gli effetti di questa scelta sull’industria europea e sulla sua competitività è un drammatico errore. Anche l’annuncio, nel programma della Von der Leyen, di un Industrial Clean Deal pare generico, non essendone noti i contenuti né soprattutto la copertura finanziaria. Così come generico appare il riferimento alla creazione di un Fondo per la competitività europea di cui di nuovo non sono delineati né i contenuti né la copertura finanziaria. Qualcuno avrà il coraggio di proporre debito comune per finanziarlo?
Viene confermata l’uscita dai motori endotermici nel 2035 (nessuno comprerà auto a benzina e diesel molto tempo prima). Ciò farà si che centinaia di migliaia di lavoratori delle catene dell’indotto dei motori endotermici, molto più ampie e importanti di quelle dei motori elettrici, saranno lasciati a casa.
Nulla è stato detto sulle asimmetrie competitive che rischiano di ammazzare il mercato unico, asimmetrie dovute agli aiuti di stato che i Paesi più ricchi e più forti (Germania e Francia) mettono a disposizione delle loro industrie penalizzando quelle dei Paesi più deboli.
Infine non si è voluto riconoscere che più di 300 miliardi di euro l’anno fuggono dall’Europa verso altre destinazioni non perché non esiste ancora il mercato unico dei capitali ma perché non ci sono prospettive di redditività delle imprese europee e quindi non ha senso investire su di esse.
Le critiche di Confindustria sono circostanziate e il presidente Orsini ha dichiarato che “ora serve un cambio di passo introducendo una politica industriale europea di medio periodo che coniughi lo sviluppo del sistema produttivo con gli obiettivi climatici”.
Lo sforzo che bisognerà fare nei prossimi mesi è duplice: da un lato, usando la forza delle analisi oggettive e dei numeri, mostrare le clamorose incongruenze contenute nel Green Deal e nell’estremismo ideologico che lo ha ispirato; dall’altro elaborare proposte concrete per realizzare una piattaforma programmatica su cui far convergere le Confindustrie dei grandi Paesi industriali europei a partire da quelle di Germania, Francia e Spagna.
Proviamo a mettere in fila alcune delle questioni più importanti che dovrebbero costituire oggetto di approfondimento scientifico e numerico e conseguentemente della formulazione di proposte razionali che, pur non negando il programma di decarbonizzazione e di transizione energetica, siano capaci di modularne meglio tempi e modi, e di prevedere un reale accompagnamento finanziario per le imprese.
REVISIONE del SISTEMA ETS. Nato con la finalità di spingere le industrie europee ad adottare tecnologie decarbonizzanti, è diventato una vera e propria tassa ambientale a carico dell’industria europea (specie delle imprese di base ed energivore, i così detti hard to abate) causandone una forte perdita di competitività rispetto alle industrie delle altre grandi aree economiche del mondo, che questa tassa non l’hanno. Sarebbe il caso, dopo venti anni di funzionamento del sistema, di fare uno studio approfondito capace di mettere in relazione il costo altissimo dell’ETS sostenuto dalla industria europea con un bilancio tra gli effetti positivi (introduzione di tecnologie di processo decarbonizzanti) e negativi (chiusure e delocalizzazioni di imprese che non hanno retto i costi della decarbonizzazione).
Inoltre, una tassa uguale per tutti sul lato dell’imposizione vede poi i singoli Paesi membri liberi di usarne come vogliono i proventi. In Germania si restituiscono più di 3 miliardi di euro l’anno alle industrie per compensare i costi dell’ETS. In Italia, con incassi di oltre 3,5 miliardi di euro nel 2023, si ridanno alle imprese 150 milioni di euro quest’anno e 300 nel 2025!
Infine occorre impedire che intermediari finanziari e banche d’affari possano speculare sul mercato dell’ETS mettendo ancora più in difficoltà le industrie che devono comprare quote di CO2 per poter realizzare i loro cicli produttivi.
REVISIONE della TASSONOMIA (l’elenco delle tecnologie ammissibili al sostegno europeo). La tassonomia identifica le tecnologie “buone” e quelle “cattive”, con effetti devastanti sulle possibilità di finanziamento. Bisogna riaffermare il principio della “neutralità tecnologica” (non è importante se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo) correggendo esclusioni ideologiche dalla tassonomia come quelle che riguardano l’impedimento della applicazione delle tecnologie delle CCUS (Carbon Capture Utilization and Storage) agli impianti di generazione elettrica da turbogas, o quelle dell’utilizzo delle biomasse per produrre energia e idrogeno.
PROROGA del TERMINE per la MESSA al BANDO dell’ENDOTERMICO. Nessuno ha calcolato l’impatto economico, sociale e occupazionale di questa misura. Occorre fare uno studio in argomento per dimostrare che non ha senso impedire la vendita di auto con motore endotermico specie se alimentate con biocarburanti che consentono emissioni di CO2 pari a quelle dei veicoli elettrici.
È ormai del tutto chiaro che sull’auto elettrica ci sarà un dominio dei cinesi che invaderanno il mercato europeo. Anche ammesso e non concesso che si riesca a mantenere una produzione di auto elettriche in Europa ci sarà una drammatica riduzione delle filiere dell’indotto e dei loro occupati (si stima da 10 a 12 rispetto all’attuale perché i motori elettrici sono molto più semplici di quelli endotermici in termini di componenti).
REVISIONE del CBAM. La regolamentazione europea del CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism), nato nel tentativo di compensare gli effetti negativi sulla competitività dell’industria europea del sistema ETS, va profondamente modificata. La pretesa del tracciamento del footprint carbonico dei fornitori dei fornitori è un appesantimento burocratico insostenibile soprattutto per le pmi e si presta a falsificazioni da parte dei fornitori extraeuropei e a misure di ritorsione che colpiranno soprattutto i Paesi grandi esportatori come l’Italia. Inoltre sempre il CBAM prevede la scomparsa a partire dal 2030 delle quote gratuite di CO2 per le imprese hard to abate (siderurgia da altoforno, cementifici, chimica, vetro, ceramica, carta, fonderie ecc.). Ciò comporterà la chiusura di interi settori industriali con le conseguenze economiche e sociali che non si possono solo immaginare ma vanno calcolate.
POSTICIPAZIONE della ENTRATA IN VIGORE del REGOLAMENTO EU DR. (Deforestation Regulation) che mette completamente in crisi settori importanti dell’industria italiana quale il legno arredo, e sub comparti dell’alimentare.
DURATA dei PATENT dell’INDUSTRIA FARMACEUTICA EUROPEA. L’approccio ideologico della Commissione Europea di prendere misure presuntamente a difesa dei consumatori, con l’accorciamento della durata dei brevetti farmaceutici, ha fatto sì che l’Europa, fino a qualche anno fa la prima economia del mondo per brevetti farmaceutici, sia stata superata dagli Usa e dalla Cina. La durata dei patent europei va riportata allo stesso livello degli Usa.
ACCELERAZIONE delle PRATICHE ANTIDUMPING. In Usa una pratica antidumping dura al massimo 6-8 mesi, in Europa dai 2 ai 3 anni. Spesso quando la misura contro le pratiche di unfair trade arriva è troppo tardi. Anche in questo caso bisogna adeguare le modalità e i tempi di queste pratiche in Europa a quelle di oltre atlantico.
RIFLESSIONI sugli AIUTI di STATO all’INDUSTRIA. Se si lasciano liberi gli Stati membri di fare politiche industriali non coordinate è la fine del mercato unico. Nel 2021 e 2022 sono stati notificati e autorizzati dalla Commissione aiuti alle industrie europee per un totale di 760 miliardi di euro. Il 56% è andato alle imprese tedesche, il 27% alle imprese francesi, meno del 7% alle imprese italiane. Non è possibile continuare così, pena il crearsi di asimmetrie competitive inaccettabili tra le imprese degli Stati membri.
Infine in tutti questi anni ci è stata raccontata la storia che il green deal e l’economia “verde” avrebbero generato molti più posti di lavoro di quelli distrutti nelle industrie tradizionali. Come al solito quando si pretende di imporre misure dirigistiche da Gosplan il mercato si ribella. Il primato su tutti i comparti dell’economia della transizione è inesorabilmente cinese: litio e batterie, pannelli fotovoltaici e inverter, pale e turbine eoliche, auto elettriche ecc. vedono un predominio competitivo assoluto dell’impero di mezzo. Gli europei, con le loro scelte, hanno creato una formidabile opportunità per la crescita e l’espansione dell’industria cinese in tutte le aree della transizione energetica.
Sarebbe giusto allora fare uno studio su quanti posti di lavoro sono stati e saranno creati in Europa dal green deal e di quanti invece sono stati e saranno distrutti dalle politiche e dalle regole UE sulla transizione. Il risultato dello studio sarebbe molto interessante e spazzerebbe via le balle cosmiche che ci sono state raccontate fino ad oggi.