di ALBERTO BRUZZONE
Promuovere gli artisti del Tigullio, dar loro uno spazio, assai prestigioso e nobile, far conoscere la loro arte e, soprattutto, il loro talento: con questi obiettivi è nata la Galleria Cella Art & Communication di Santa Margherita Ligure che, nel corso dell’estate appena conclusasi, è riuscita a dar lustro a sei personalità della zona e ora chiude la programmazione ‘primavera-estate’ con la personale di Grazia Giovannetti, che per la seconda volta espone in questa bella realtà fondata e guidata da Barbara Cella, esperta di arte e comunicazione e altrettanto appassionata su entrambi i fronti.
‘Forma e colore’ è il titolo della mostra dedicata a Grazia Giovannetti, artista di lunghissimo corso che è nata a Lucca nel 1932 e che sin dal 1975 vive e lavora a Lavagna. Se nella precedente esperienza presso i locali di corso Marconi 2, a Santa Margherita, ci si era concentrati sulla parte più legata all’astrattismo, qui prevalgono, questa volta, lavori modulari dalla vena ‘scompositiva’, oltre ad alcuni inediti di più largo respiro.
“La geometria – come dice la pittrice – è un discorso intimo, a volte silente, altre volte tormentato o lieto; un distacco dalla realtà e dentro la realtà; non rappresenta nulla, ma dice tutto. Perché nel silenzio si cela ciò che a parole non si può o non si vuole dire. E il colore lascia trasparire le emozioni”.
‘Forma e colore’ è aperta sino a giovedì 14 ottobre, nei giorni di mercoledì e giovedì dalle 16 alle 19 e da venerdì a domenica dalle 10,30 alle 12,30 e dalle 16,30 alle 19,30. Chiusura al lunedì e al martedì. Le entrate sono contingentate, come da protocollo anti Covid-19 e quindi all’ingresso viene richiesto il Green Pass.
Toscana di origini, Grazia Giovannetti ha mosso i suoi primi passi nel campo dell’arte accanto al nonno Enrico, che era decoratore, pittore e restauratore. Nel 1969 si è trasferita in Liguria, dov’è cresciuta come pittrice davanti al mare ondoso, portandosi dietro l’immagine delle dolci colline toscane. Dal 1975 vive e lavora a Lavagna.
La sua ricerca verte sul rigorismo geometrico delle forme e sull’analisi della scomposizione e ricomposizione formale di moduli-cellula. Come spesso accade, i suoi inizi sono figurativi, con la frequentazione dei corsi del professor De Laurentis, ma poi trova nell’assoluto della geometria l’espressione della sua poetica interiore.
A partire dalle fine degli anni Settanta, i suoi lavori vertono intorno allo studio di un modulo che porterà avanti negli anni in una serie infinita di varianti. È la casa-cellula che, come scrive Silvio Riolfo Marengo, è un’invenzione stilistica capace di operare il passaggio dal ‘tu’ al ‘noi’, con un linguaggio che è di architettura spaziale, artistica e spirituale.
Le prime ricerche vedono il modulo-casa, scarno, lineare, riprodotto in allineamenti compatti, formalmente chiusi, giocati sui toni dei grigi che richiamano un silenzio metafisico. Ma andando avanti con la ricerca e con la vita, si trovano opere che preludono a una sorta di movimento con i volumi centrali sempre chiusi ma che ai bordi incominciano ad aprirsi per poi evidenziarsi nelle ultime produzioni dove c’è una vera e propria scomposizione e ricomposizione del modulo, come in una sorta di danza attuata con un ritmo musicale che aggrega e disgrega. Anche il colore cambia e si evolve trovando, dai toni dei grigi e dell’azzurro ardesia, una cromaticità più brillante e dinamica, vicino all’optical art, e, talvolta, riprendendo i colori dei bruni e dei bruciati tipici della sua terra natale. Infatti, spesso, alla tela naturale sostituisce la iuta, a dare maggior calore a un rigorismo geometrico che, comunque, non è mai oltremodo fredda rappresentazione, ma un agire dei moti interiori dell’anima.
Barbara Cella, gallerista e curatrice delle sue personali, ha studiato molto l’artista lavagnese: “I lavori Grazia sono potenti, vibranti, talvolta violenti. Ti vengono incontro, ti catturano, entrano in quella parte di te stesso che spesso rimane inaccessibile. Lei li definisce ‘astrazioni di pensiero’. Quando lavora, Grazia si chiude al mondo: nel rifugio del suo studio viene assorbita totalmente dalle sue opere, così rigorosamente precise da richiedere tutta la sua attenzione. È un dialogo interiore, che coinvolge ogni suo pensiero, ogni sua emozione. Sono amici, sono figli, per lei, creature uniche dalle quali fatica ad allontanarsi. La nascita di un quadro è un parto della coscienza, un lento lavoro di costruzione formale, bisognoso di una tecnica infallibile. I suoi pensieri sono lì, nella linea pulita e netta, nella creazione del colore giusto, nella ricerca della forma, nel rapporto preciso dei volumi. L’impeto passionale della sua natura trova qui una catarsi, arriva ad una calma interna che solo la gioia di esprimere la propria arte, le dà”.
Secondo Barbara Cella, “dalla fase della scomposizione, che dura per tutti gli anni Novanta, la sua ricerca la porta ai lavori degli anni Duemila. Passa alla tela grezza, più materica rispetto al precedente supporto, a colori più morbidi e caldi che richiamano quelli della sua terra, la Toscana. La rigidità formale e psicologica si è aperta ulteriormente rispetto alla scomposizione precedente. Ora l’emozione è più sciolta, aiutata e sorretta da un percorso di vita che ha reso Grazia Giovannetti più consapevole, come persona e come artista. Questa fase la porta a ricercare geometrie più libere, con linee e volumi svincolati definitivamente dalla rigidità della ripetizione della cellula-casa, che si dissolve in una dimensione spaziale, definitivamente astratta, dove nulla rimane dell’iniziale modularità”.
A seguire l’artista, oltre alla brava gallerista, c’è anche il figlio, Massimo Ortelio, di professione traduttore. “La mia pittura – spiega l’artista – nasce dall’amore per il colore. Tutti i colori mi danno qualcosa e posso adoperarli tutti, ma, in verità, ritrovo sempre tra i miei colori, quelli della mia terra. Ho in mente certi colori delle tombe etrusche o comunque delle pitture antiche”.
Il ricordo va alle origini: “Essendo autodidatta, devo a Lucca la mia creatività, perché quello che faccio l’ho appreso lì, senza accorgermene. Mi incantavano le vetrate delle antiche chiese, le linee geometriche, semplici, che nell’insieme diventano maestose. Così mi sono portata dietro tutte quelle bellezze che rivivo quando dipingo”.
La Giovannetti ha partecipato negli anni sia a personali che a collettive. L’esordio fu a Chiavari, nel 1978, presso la galleria Il Portico. Poi, sono seguite altre occasioni in gran parte della Riviera di Levante (da Sestri a Framura, passando per il Castello di Rapallo), così come a Ponente (a Pegli) e in altre regioni italiane.
Qualche anno fa, il contatto più prestigioso. Lo ricorda il figlio, Massimo Ortelio: “Fummo invitati dalla galleria Artifact, di Lower East Side a New York. Il contatto avvenne direttamente con il proprietario, l’esperto d’arte Martin Bernstein. Mamma aderì con enorme entusiasmo ma, qualche mese dopo, venne a mancare papà e lei non se la sentì più. Così dovemmo rinunciare, ma siamo comunque rimasti in contatto con questa prestigiosa sede e chissà che in futuro non si ripresenti l’occasione”.
Non è proibito parlare di futuro, anzi: “A dispetto dell’età, indubbiamente avanzata, mamma lavora molto ed è sempre attiva. Certo, magari la mano è un po’ meno ferma, ma le idee e la creatività viaggiano come sempre hanno fatto”. Quando un artista intraprende un percorso, rimane sempre lì e la strada diventa la sua vita, il suo modo di raccontare e di raccontarsi: non esistono capolinea.