di GIORGIO ‘GETTO’ VIARENGO *
La Liguria è stata terra di grandi e documentate pratiche agrarie. Questo è dimostrato dal variegato paesaggio che ci circonda, dall’immediato della costa alle montagne appenniniche.
Uno degli strumenti maggiormente utilizzati per la modificazione del paesaggio è stato il fuoco; la lettura di grandi storici, come ad esempio Emilio Sereni, ci porta a conoscenza delle più antiche pratiche per bonificare i terreni, per ricondurli a buoni e ricchi pascoli, dove il debbio, l’incendio delle stoppie e dei pianori secchi, produceva l’effetto di rinnovamento dello strato erboso, con le ceneri che agivano da fertilizzanti per la terra che poteva essere successivamente coltivata.
Il fuoco era poi considerato elemento sacrale per diverse pratiche. I falò divenivano centrali nelle tante festività e non mancavano mai nelle liturgie popolari. Il fuoco nel buio della notte sollevava mille scintille e lapilli che salivano verso il cielo: un omaggio alle divinità e, dopo la cristianizzazione, ai tanti santi che soccorrevano il mondo contadino e agrario.
Poche settimane orsono abbiamo narrato delle millenarie pratiche legate a San Giovanni Battista e, più recentemente, a San Pietro, per questi santi non potevano mancare falò per festeggiare e per verificare i tanti presagi legati all’accensione del fuoco, alla sua durata, all’altezza raggiunta dalle fiamme ed a come e dove sarebbe caduta la “penolla”, un alto tronco posto al centro del falò. La superstizione si prolungava nelle successive ceneri, come pure nei carboni del falò che vantavano mille benefici e proprietà terapeutiche.
A questo riguardo e per calare questo mondo in un contesto preciso mi piace citare una frase del farmacista diVarese Ligure, Clemente Rossi, scritta nel 1784: “Il mondo contadino era stregato dalla notte e dal suo più profondo buio, un’oscurità che permetteva di vedere ogni cosa”. Ora quell’oscurità era penetrata dalle fiamme del fuoco, si festeggiava, non poteva mancare un bicchiere di vino: un complesso di circostanze che permetteva di vedere e sentire tutto ciò che la fantasia indicava e desiderava.
Il fuoco, poi, non era solo falò, ma poteva prendere sembianze più precise. Il “lumizzo” di Monte Agugiaia, nell’areale di Perlezzi, era un fuoco purificatorio. I pastori-contadini raccoglievano un’erba infestante maligna, “u dragnug”, e la accatastavano sul punto più elevato del monte. Poi si attendeva la notte, la catasta arricchita grazie alle molte braccia giunte a raccogliere l’erba cattiva. Col buio il fuoco divorava quell’essenza nociva per il pascolo. Anche in questo caso il fuoco è l’elemento centrale di una pratica, una liturgia collettiva legata al pascolo e al successo dei prodotti che se ne ricavano: il premio “divino” era questo.
Ė interessante verificare come il fuoco abbia avuto una forte crescita e sviluppo nelle tradizioni in particolare modo con l’invenzione della polvere pirica e le sue applicazioni. Durante le ore dell’apparizione del luglio 1610 a Chiavari, si registrarono diverse iniziative per i successivi festeggiamenti. Nelle documentazioni si ritrovano diverse “macchine del fuoco”, congegni e apparati decorativi con l’uso di lanterne e fuochi pirotecnici.
Il primo a teorizzare il successo dei fuochi artificiali sarà il senese Vannocchio Biringuccio che pubblica, nel 1540, il suo “De Pirotecnia”, un volume interamente dedicato all’uso del fuoco in siderurgia, nelle fusioni e nello spettacolo dei fuochi artificiali. Grazie a questa novità entrano con forza nell’uso comune le nuove trovate illuminanti, esplosive e dotate della possibilità di salire in cielo ad illuminare la notte. Si diffonde, grazie alle Confraternite, l’uso dei mascoli, dei mortaretti posizionati in sequenza a dar vita alle tante “sparate”. Il mortaretto era diffusissimo in ogni festeggiamento e rendeva la festa partecipata sin dai giorni precedenti.
I “massari dei fuochi” raccoglievano le offerte per acquistare la mina potassa e caricare i mascoli. Tutti partecipavano al carico dei mille o più mortaretti, il lavoro non mancava; dopo la carica si passava all’“aguginatura” per permettere l’accensione; seguiva la posa lungo il tracciato della sparata e, a terminare, il monumentale “ramadan”.
Il termine utilizzato per la parte terminale della sparata non ha nulla a che vedere col digiuno dei mussulmani, ma da sempre riveste un valore onomatopeico: ‘ramadan’ ossia grande rumore.
Il fuoco diventa così un elemento teatrale, capace di costituire un vero spettacolo, con girandole, razzi, comete, bagliori e gli immancabili colpi finali. Oggi per essere attenti al mondo degli animali domestici, ai tanti gatti o cani che vivono con noi, si è aperta una discussione su come affrontare il rumore dei “botti”, in molti casi si sono sperimentati nuovi fuochi, bellissimi, colorati, ma privi del colpo finale. Non deve stupirci, un grande musicista, Georg Friedrich Händel, compose nel 1749 una partitura musicale per rendere ancora più sonoro lo spettacolo: il compositore sosteneva infatti che esso doveva essere sonoro, ma non rumoroso.
In ogni modo il fuoco da rituale si è trasformato in spettacolo in una storia lunga secoli.
(* storico e studioso di tradizioni locali)