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di ANTONIO JUNIOR LUCHINI *
Lo scorso martedì 3 ottobre, lo speaker della camera dei rappresentanti Kevin McCarthy è stato protagonista di un dubbio primato, diventando il primo speaker a venire sfiduciato nella storia del Congresso US. Esponente di lunga data del Partito Repubblicano, McCarthy aveva assunto questa posizione dopo un processo di nomina alquanto travagliato ed osteggiato dal raggruppamento repubblicano radicale del Freedom Caucus, che gli preferiva il deputato dell’Arizona Andy Biggs.
Una tregua tenue, quella tra McCarthy ed i ‘trumpisti ortodossi’, che la ‘terza carica’ dello stato americano aveva comunque tentato di mantenere cedendo ad alcune richieste discutibili della fazione estremista, tra cui l’inizio di un processo d’impeachment a carico del presidente Biden. Una strategia di appeasement destinata tuttavia a non durare a lungo e a crollare per un motivo peculiare: la ragion di Stato.
L’antefatto del voto di sfiducia contro McCarthy va ricercato nel consueto tiro alla fune portato avanti dalla maggioranza repubblicana alla Camera contro la presidenza dem sul tema del budget annuale e della fissazione del debt ceiling, il numero massimo in denaro che può essere preso in prestito dal governo Usa per finanziare le sue spese correnti. Sfruttando la risicatissima maggioranza repubblicana, il Freedom Caucus aveva legato l’approvazione del nuovo budget ad una serie di tagli radicali alla spesa pubblica ed alla tassazione, volti essenzialmente a sabotare l’agenda governativa ‘bideniana’ portata avanti da provvedimenti quali la maxi-spesa infrastrutturale dell’Inflation Reduction Act. Un progetto, ovviamente, improponibile per il Senato a guida dem e per la stessa Casa Bianca.
In modo più importante, l’assenza di un nuovo disegno di legge sugli stanziamenti rischiava di portare il governo federale verso un nuovo shutdown, cioè la cessazione temporanea di diversi servizi amministrativi e la mancata erogazione degli stipendi di diverse fasce di lavoratori pubblici, arrivando anche ad intaccare le attività di dipartimenti chiave come quello della Difesa. Nelle settimane precedenti alla fine della finestra di tempo per approvare un nuovo accordo sul finanziamento del governo, diversi economisti avevano inoltre paventato la possibilità di un default del debito sovrano americano, situazione sfiorata per poco già a giugno scorso. Biden intratteneva da tempo dei colloqui con McCarthy che, tuttavia, aveva deciso di assumere un comportamento duplice, rassicurando la presidenza in privato per poi sobillare gli animi più radicali del partito durante le conferenze stampa.
Una duplicità destinata tuttavia a cadere fragorosamente quando la proposta di legge di McCarthy, impuntata sul taglio alla spesa pubblica e sul reindirizzamento di ingenti quantità di fondi federali al controllo dell’immigrazione, viene rigettata dallo stesso Freedom Caucus. Tra i vari punti di disaccordo tra lo speaker e gli estremisti risalta inoltre un fondo di cinque miliardi di dollari stanziato in aiuti militari per le forze armate ucraine, fortemente osteggiato dai deputati isolazionisti. Messo davanti alla possibilità sempre più concreta di uno shutdown catastrofico per l’economia americana, McCarthy cede ed invoca il supporto dei democratici alla Camera per passare una continuing resolution, una misura temporanea volta a finanziare il governo federale per altri 45 giorni e posticipare lo shutdown.
La risoluzione passa con il supporto dei democratici e dei restanti deputati repubblicani, ma l’ira del Freedom Caucus è istantanea. Se ne fa facile interprete il deputato Matt Gaetz della Florida, esponente della destra radicale e negazionista del risultato delle elezioni del 2020, che verso McCarthy coltiva un astio forse più personale che politico: Gaetz introduce una mozione per ‘revocare’ la posizione di Speaker da McCarthy che, pochi giorni dopo, viene approvata con il supporto degli stessi democratici: una mossa cinica, volta ad incitare la lotta intestina al partito repubblicano. McCarthy viene succeduto dallo Speaker pro tempore nominato da lui stesso, Patrick McHenry.
Finisce così la carriera da Speaker di Kevin McCarthy, che rimane deputato ma annuncia la sua volontà di non ricandidarsi per la posizione. Una parabola discendente per l’ultimo delle Young Guns, il trio di nuove leve repubblicane che negli anni di Obama prometteva una nuova, energica fase per il conservatorismo americano: così come i suoi colleghi Eric Cantor e Paul Ryan, che si sono ritirati precocemente dalla politica, McCarthy è stato masticato e sputato dalla lunga onda populista che dal Tea Party si è poi evoluta nel movimento trumpiano.
(* ricercatore in relazioni internazionali presso l’Università di Tartu
e collaboratore del blog Jefferson – Lettere sull’America)