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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

L’importanza della memoria, per non perdere il senso di quello che siamo stati e della nostra storia

Il racconto della signora Genia, nata a Casarza nel 1931, con i suoi novantatré anni e una memoria luminosa, capace di una narrazione precisa, dove le parole diventano testimonianza di una vita non comune
Passo del Bocco, Collegio Devoto
Passo del Bocco, Collegio Devoto
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di GIORGIO ‘GETTO’ VIARENGO *

L’esercizio della memoria.

Erano i primi anni Settanta, e partivamo con una vecchia Cinquecento, un registratore a cassette, un taccuino e un immenso desiderio di scrivere una possibile storia del territorio. Avevamo ben chiaro il concetto di territorio e intendevamo indagarlo, documentarlo iniziando dalla memoria orale, dalle testimonianze dirette di quanti lo vivevano da prima di noi ed erano in grado di narrarne gli avvenimenti, le cronache più precise. 

Erano tempi in cui ancora potevamo incontrare sul campo ricercatori più anziani ed illustri: Hugo PlomteuxEdward NeillGian Marco Porcella, tutti animati dal progetto di dare una storia vera alla terra nella quale viviamo, partendo dall’immenso entroterra appenninico che ci circonda. Cercavamo d’intercettare il mondo popolare, portatore di una visione della vita ben diversa da quella di noi cittadini, di una cultura autonoma con saperi e conoscenze che si erano sviluppati in quelle valli, colline e borghi di campagna segnati dal vivere contadino. 

Lentamente affinavamo i nostri saperi e trovavamo nuovi interlocutori, persone molto spesso anziane, con vissuti di storie lontane, vere macchine del tempo per capire il territorio che ci circonda.

Io non ho mai interrotto questa indagine e i suoi metodi ispettivi, non ho mai rinunciato al piacere di raccogliere testimonianze che diventano documenti vivi e, perciò, nuovamente narrabili. Nei giorni scorsi ho avuto un lungo colloquio con la signora Genia, nata a Casarza nel 1931, con i suoi novantatré anni e una memoria luminosa, capace di una narrazione precisa, dove le parole diventano testimonianza di una vita non comune. Spesso la vena narrativa si colora di tinte scure, dolorose, ma la sua voglia di vivere ne fa risaltare anche la felicità possibile, quella che giustifica i momenti più bui. 

La famiglia di Genia fu divisa dalla terribile piaga dell’emigrazione. Per trovare di che vivere era necessario partire, e il padre Giovanni era partito come muratore in Francia, nella Parigi del primo Novecento. Quando l’Europa fu sconvolta dal turbine della guerra mondiale, Giovanni dovette rientrare in patria per combattere. Anche i nostri nemici rientravano in patria per combattere, si sparavano da trincee contrapposte. Il padre di Genia rimane ferito, rientra, e dopo la convalescenza è inviato a lavorare in Tubifera a Sestri Levante. Quando Genia compie tre anni Giovanni, logorato da quella vita e fragile di salute, muore improvvisamente. A questo punto sarà la madre, Maria Teresa, ad entrare in un albergo come cameriera; ma il lavoro della madre non bastava a sfamare la famiglia.

Lo svolgersi del racconto appare come lo scorrere di un fiume in piena, dove emerge solo dolore: e ben presto ne giungerà uno enorme. Genia e le sue due sorelle saranno separate e inviate in collegio, una a Bacezza sulla collina di Chiavari, una dalle suore di santa Marta e lei al Devoto, presso il Passo del Bocco.

Qui la voce rallenta, si fa più grave, venata da una lontana malinconia: “Avevo otto anni, mi portarono in quel grande edificio, una casa enorme dentro ad un bosco di faggi. Le suore mi vennero incontro, mi presero per mano e dissero a mia madre d’andare”. Dopo una pausa, il racconto riprende: “Vedo mia madre che scende la scalinata, dopo vedo solo la sua testa che scompare nel bosco”. Ora è in collegio, appena giunta viene condotta in camerata, la sacca dei vestiti posta  nell’armadio e subito si procede al taglio dei capelli, poi al refettorio in mezzo a  circa cinquanta ragazzi e altrettante ragazze. La vita scorre tra mille malinconie, spesso Genia guarda verso il bosco per vedere se arriva sua madre, ma non si muove nulla, solo le frasche del viale verso l’ingresso. Poi arriva nuovamente la guerra, gli allarmi, gli aerei, il cibo inizia a scarseggiare, la fame è sempre più presente. “Ora mi chiedevo quando la guerra sarebbe finita e con lei la fame”.

Genia sarà in collegio sino ai diciotto anni, le norme prevedevano che solo in quel momento sarebbe potuta uscire e riprendersi la sua vita. “Sino ad allora avevano deciso per me dei maledetti eventi, mi pareva che l’intero mondo fosse contro di me”. Il sorriso prevale quando mi racconta di Giggio, un asinello sempre presente nelle interminabili giornate del collegio, ora a prendere legna, ora verso il ‘bitegone’ del Bocco a fare provviste, mite, passo lento e occhi dolcissimi.

Il 24 novembre del 1944 un aereo americano sorvola più volte la zona, in un passaggio il rombo si fa fortissimo, poi un sibilo e un colpo che rompe diversi vetri delle finestre. “Dopo poche ore la suora ci disse che l’aereo era precipitato in mezzo alla montagna. La guerra era davvero vicina, proprio in mezzo a noi”. Genia mi dica, come avete fatto a sapere che un giorno sarebbe finita? “La fine della guerra arrivò con i partigiani che salirono al collegio con tre sacchi di farina, la festa fu bellissima perché si poteva fare il pane. Un pane buono come quello non lo scorderò mai più. Uscita dal collegio scesi a Chiavari, trovai lavoro al bar della Posta, stavo fissa, avevo una cameretta dove dormivo”.

Ora la vita si era fatta più tranquilla, la conferma fu l’arrivo di Giovanni, un uomo che diventerà suo marito nel 1955. “Oggi ho novantatré anni, sono in casa mia con la mia famiglia e i nipoti, ma quando ci penso vedo ancora la mamma che scende lungo le scale del collegio, per il sentiero e scompare”.

Ecco un esempio d’esercizio della memoria. Non è un racconto effimero, si tratta della testimonianza preziosa di una vita passata, di un tempo scandito da due guerre, da dolore e ingiustizia, dove la memoria ci racconta della bontà del pane, un pane buonissimo perché era finita la guerra.

(* storico e cultore di tradizioni locali)

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