di ANTONIO GOZZI
Concludendo l’editoriale della settimana scorsa mi ponevo la domanda sul significato di un mondo multipolare, cioè non più retto dall’egemonia statunitense e occidentale, e mi ponevo l’interrogativo se questo mondo in cui ormai viviamo sia migliore o peggiore del precedente.
Il periodo transitorio dell’unipolarismo americano seguito alla caduta del Muro e alla fine della Guerra Fredda è finito da tempo. Dopo quei fatti gli Usa erano rimasti l’unica potenza superstite, ed avevano costituito una leadership, prima multilaterale ed intenta a rinforzare le istituzioni internazionali durante le presidenze di Bushpadre e di Bill Clinton, e poi, dopo l’11 settembre, in modo molto più unilaterale con la presidenza di Bush figlio.
La grave contingenza del 2008/2009 con l’aprirsi di una seria crisi interna americana fatta di divisioni e contrapposizioni acute tra pezzi di popolazione e società, di cui la presidenza Trump è stata la manifestazione più eclatante, ha distratto gli Usa dal loro ruolo di leadership globale.
Disimpegno dal Medio Oriente, incapacità di capire e orientare le cosiddette primavere arabe, distanza e non gestione della crisi libica, passività nei confronti della Russia e dell’occupazione della Crimea nel 2014, frettoloso e drammatico disimpegno dall’Afghanistan abbandonato ai Talebani: sono tutti esempi di come gli Stati Uniti negli ultimi quindici anni abbiano del tutto rinunciato a qualsivoglia leadership internazionale e si siano completamente concentrati sui problemi interni e su quella che sarà la confrontation di questo secolo con la Cina.
In altri termini, gli Usa hanno dato inequivocabili segni di non voler più essere “il poliziotto del mondo”, né nella versione democratica di Obama prima e Biden dopo, culminata con la precipitosa fuga dall’Afghanistan, né nella versione repubblicana trumpiana in cui “ci facciamo gli affaracci nostri e il resto non ci interessa”.
Il mondo è diventato da quel momento multipolare nel senso che più attori si sono presentati sulla scena. Le sinistre occidentali, spesso per antiamericanismo tendenziale, hanno per decenni auspicato la fine dell’egemonia Usa e l’avvento di un nuovo ordine internazionale.
Il multipolarismo alla fine è arrivato e la fine dell’egemonia americana anche, ma è difficile intravvedere oggi un senso di marcia, un nuovo equilibrio, la fine delle guerre e delle violenze, un comporsi di interessi nazionali e culturali che al contrario appaiono spesso duri e irriducibilmente in conflitto.
Il declino del potere occidentale e la fine dell’egemonia americana sono stati salutati e rivendicati non solo da Cina e da Russia, e da una serie di stati ‘canaglia’ (dalla Corea del Nord all’Iran ecc), ma anche da Paesi terzi molto importanti come India e Brasile, desiderosi di acquisire più spazio e peso sulla scena internazionale.
Che giudizio si può dare sulla situazione attuale?
La questione del multipolarismo dei giorni nostri, come dicevo in apertura, è molto complicata. Un mondo siffatto è destinato ad essere un mondo migliore, meno instabile e turbolento, con meno violenze più benessere e rispetto per i popoli di quello che è stato fino a ieri o , al contrario, la situazione di oggi si presenta ancor più caotica e preoccupante?
Propenderei per questa seconda ipotesi.
L’impressione è che l’invasione russa dell’Ucraina sia l’ultima tappa del pericoloso caos attuale che ci fa riflettere sul fatto che, quasi per una legge fisica se spazi vengono lasciati c’è qualcuno che li riempie inevitabilmente. Molti analisti ad esempio sostengono che Putin abbia pensato, proprio dopo il frettoloso e tragico abbandono di Kabul da parte degli Usa e delle altre truppe occidentali, che l’invasione dell’Ucraina sarebbe stata una passeggiata non contrastata da nessuno.
Dopo la Seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazi-fascismo si era costruito un ordine internazionale ed europeo basato su alcuni principi tra i quali erano fondamentali la sovrana uguaglianza fra gli stati e la non modificabilità dei confini con l’uso della forza.
Ciò a cui assistiamo è una violazione permanente di questi principi, il secondo dei quali era stato difeso per decenni anche dall’Unione Sovietica soprattutto in sede Onu. Oggi e negli ultimi anni purtroppo la Federazione Russa ha ripetutamente violato sia il diritto internazionale che quello umanitario.
Se tutto ciò che abbiamo detto è vero dobbiamo sforzarci di analizzare la realtà e a farlo senza ideologismi o retoriche pacifiste. La situazione di oggi è così grave e complessa che non ci può essere confusione strategica.
Confusione strategica significa non avere chiaro quali sono i principi di diritto internazionale a cui devono ispirarsi i rapporti tra popoli e nazioni; chi rispetta questi principi e chi invece li viola; quali sono rapporti di forza tra le varie aree del mondo; cosa si deve fare in presenza di gravi violazioni di questi principi, in particolare di aggressioni all’integrità territoriale di stati sovrani, violenze gravi e ripetute alle popolazioni civili, crimini di guerra come sta succedendo in Ucraina a causa dell’aggressione russa.
Il tema innanzitutto si pone per noi europei e proprio alla vigilia della ricorrenza della Liberazione dal nazi-fascismo.
La questione è in qualche modo esplosa fragorosamente dopo il viaggio del Presidente francese Macron in Cina e dopo le sue affermazioni, poi repentinamente corrette, sulla questione di Taiwan. In quanto affermato da Macron si poteva intravedere una sorta di equidistanza dalle posizioni cinesi e americane e sulla necessità di “un’autonomia strategica europea”.
In sostanza Macron tornando dalla Cina aveva detto che non bisogna pedissequamente seguire la politica americana sulla questione di Taiwan, ed in un sussulto neo-gollista il giovane presidente francese aveva tuonato che “Essere alleati non vuol dire essere vassalli” e ciò proprio in forza della necessità di un’autonomia strategica europea.
Le parole del presidente francese hanno sollevato non poche perplessità in tutta Europa, per almeno due ragioni. E non certo per il richiamo all’esigenza di un’autonomia strategica europea, astrattamente sempre auspicabile.
La prima ragione è che teorizzare questa autonomia in assenza di capacità effettive, nel bel mezzo di una guerra in Europa e con la prospettiva che Pechino replichi a Taiwan ciò che Mosca sta facendo da un anno in Ucraina è un sintomo di pericolosa confusione strategica.
Si è giustamente rilevato che senza la copertura e il massiccio aiuto militare statunitense e britannico la ferma posizione assunta dalla UE nei confronti dell’invasione russa, in ottemperanza ai propri principi e ai propri statuti, sarebbe stata impossibile o velleitaria. E quindi è nella saldezza della relazione transatlantica che l’Unione trova ancora oggi la sua sicurezza nei confronti della minaccia esistenziale avanzata dalla Russia e di Putin.
Lo hanno capito benissimo Finlandia e Svezia che dopo decenni di neutralità rivendicata anche con orgoglio, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte russa, si sono precipitate a richiedere la loro adesione alla Nato.
L’autonomia europea rivendicata da Macron ha come corollario un significativo aumento della spesa militare europea. Sono pronti gli Stati membri a sostenerla, abituati come sono alla comfort zone dell’enorme spesa americana a difesa dell’Europa?
Le seconda ragione per la quale l’uscita del presidente francese appare intempestiva è che, nel momento meno opportuno, stressa le divergenze latenti all’interno dell’Unione su tre punti essenziali: il legame con gli Stati Uniti di cui l’impegno a sostegno dell’Ucraina è cruciale; le relazioni con la Cina, di fatto alleata silenziosa della Russia; l’“autonomia strategica” dell’UE tra le due grandi potenze.
Su tutte e tre le questioni ci sono importanti riflessioni da fare.
Nei Paesi Baltici, in Polonia, nella Repubblica Ceca ma anche in tutti i Paesi nordici l’alleanza con gli Stati Uniti d’America appare ben più strategica che non la questione della sovranità europea nel momento in cui la guerra è di nuovo apparsa alle loro frontiere. Un diplomatico di un Paese del Nord Europa ha efficacemente sintetizzato così la posizione: “I democratici devono serrare i ranghi in questi tempi incerti e pericolosi e non rivaleggiare gli uni contro gli altri. Noi siamo per una relazione transatlantica forte con gli Stati Uniti dal commercio alla difesa alla sicurezza strategica. E siamo molto prudenti a proposito del miglioramento delle nostre relazioni con la Cina”.
C’è il rischio che ci siano due posizioni europee molto diverse in rapporto agli Usa, e la posizione di Macron rischia di provocare addirittura un rigetto, da parte dei Paesi dell’Est e del Nord europeo, dell’idea di autonomia europea. Anche per questo le sue dichiarazioni sono arrivate nel peggior momento possibile: perché l’occidente e il mondo democratico oggi ha bisogno di unità e non di divisioni.
Non si costruisce l’autonomia strategica europea parlando della necessità di non essere “vassalli di Washington né di Pechino” omettendo di dire che il primo è un alleato con cui condividiamo valori, istituzioni politiche e libero mercato, il secondo propone un mondo all’interno del quale i valori occidentali ed europei sarebbero ininfluenti e forse a rischio di sopravvivenza.
Il tema dell’autonomia strategica europea esiste e va posto, ma va spiegato bene, e la sintesi è costruire la capacità dell’Europa di difendersi da sola nel caso in cui negli Usa torni Trump col suo menefreghismo nei confronti del resto del mondo e la sua amicizia con Putin.
Sulle relazioni con la Cina i 27 negli ultimi tempi hanno progressivamente irrigidito la loro posizione, a seguito della pandemia di Covid e dopo l’invasione russa dell’Ucraina, rispetto alla quale i cinesi hanno assunto una posizione di silenzioso appoggio ai russi.
Senza ripudiare la Cina come partner commerciale, si sottolinea sempre di più in Europa il fatto che la Cina è anche un concorrente e un rivale sistemico, e che bisogna progressivamente ridurre i rischi e la nostra dipendenza strategica, ampliatasi di molto negli ultimi anni, ad esempio con riferimento alle auto e alla mobilità elettriche.
Basta guardare cosa hanno fatto i cinesi in Africa negli ultimi 20 anni: in questo periodo gli scambi commerciali della Cina con l’Africa sono aumentati trenta volte, ed oggi sono quattro volte più importanti degli scambi commerciali degli Usa con il continente africano.
Costruendo ponti, strade, porti, aeroporti, stadi, spesso con un debito strangolante per i Paesi africani, la Cina è riuscita a mettere in sicurezza l’accesso a risorse strategiche di cui il sottosuolo africano è ricchissimo: petrolio in Gabon e Angola, bauxite e allumina in Guinea, rame in Zambia, uranio in Namibia, cobalto, litio e terre rare fondamentali per la transizione energetica in Repubblica Popolare del Congo. Così più di due terzi della produzione mondiale di cobalto e la quasi totalità delle miniere per estrarlo sono finite in mani cinesi.
Tutto ciò è avvenuto ancora una volta per il disinteresse americano ed europeo. È una legge fisica: i vuoti vengono riempiti. L’ex vice presidente nigeriano Yemi Osinbajo il 27 marzo scorso ad una conferenza al King’s College di Londra ha concluso dicendo: “La maggior parte dei Paesi africani, a giusto titolo, non si deve scusare dei suoi legami stretti con la Cina. La Cina si è manifestata là dove e quando l’Occidente si mostrava distratto e reticente”.