(r.p.l.) ‘Ho bisogno del mare perché m’insegna’. Così inizia la poesia di Pablo Neruda contenuta nella raccolta Memorial di Isla Negra del 1964. In ogni onda c’è l’insegnamento del mare che, costantemente, racconta e spiega ma servono ‘orecchie’ e strumenti per comprenderlo.
È accaduto anche lo scorso 3 novembre con la storica mareggiata che ha colpito la Liguria. Tra i centri che si occupano di studiare il mare c’è il laboratorio Mareco del Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche) a Bonassola, ed è qui che da anni porta avanti la sua attività di ricerca Alessandro Benedetti.
Il Centro di Bonassola è stato inaugurato lo scorso 21 ottobre, a cinque anni dalla distruzione dovuta alla mareggiata del 2018.
“Siamo riusciti a partire con il cantiere l’anno scorso – racconta il ricercatore – e a inaugurare poche settimane fa, vivendo subito le mareggiate del 3 e 5 novembre. Si è ripetuta la storia di alcuni anni fa quando, dopo la mareggiata del 30 ottobre 2008 e i lavori di ripristino nel 2010, ci fu un nuovo episodio, il 17 dicembre del 2011. Quando abbiamo inaugurato la sede dopo i lavori, abbiamo avuto un primo ‘stress test’. Fortunatamente non ci sono stati danni, solo qualche ‘graffio’ ma questo ci dovrà aiutare a capire quali sono le criticità e a intervenire per tempo. Abbiamo dato un valore positivo alla cosa”.
Per comprendere meglio il fenomeno della mareggiata appena trascorsa, Benedetti dà alcuni numeri: “Durante la mareggiata del 3 novembre, la boa di La Spezia ha letto un picco di sei metri e quarantotto di altezza significativa con nove punto sette secondi di periodo medio, cioè la distanza tra cresta e cresta. La fase culminante è stata durante la mattinata in cui le onde hanno sbattuto sulla costa per cinque ore circa. Per quanto riguarda la mareggiata del 5, invece, il picco di altezza significativa è stato di cinque metri e mezzo con un periodo di nove secondi. Per trovare una ‘doppietta’ simile bisogna andare indietro al 26 e 28 dicembre 1999”.
L’elenco dei fatti è lungo e tristemente noto. Da ponente a levante si contano danni per milioni di euro: “La Liguria è una sorta di gruccia – specifica – e pur non essendo grande, ha un clima ondoso disomogeneo: questo vuol dire che le coste non vedono lo stesso regime di onda per diversi fattori. Le libecciate interessano di più il levante, le sciroccate insistono solitamente sul ponente. Questo tipo di mareggiate, pur avendo più debordanza sul levante, sono talmente piene che interessano tutta la regione”.
Ed ecco che tornano in mente gli allagamenti di Celle, la distruzione della passeggiata di Voltri, i problemi di Arenzano, per poi spostarsi a levante e incontrare i danni a Genova, la piazzetta di Portofino invasa dall’acqua, il ristorante di Camogli crollato sotto il continuo infrangersi dell’onda, i danni alle Cinque Terre.
Benedetti prosegue: “L’origine di queste due mareggiate è da ascriversi a due cicloni atlantici che si sono succeduti a poca distanza l’uno dall’altro. Il primo è Ciaran, quello che sull’Europa atlantica ha portato venti a duecento chilometri orari con onde alte anche quindici, venti metri. Da qui si è sviluppato sistema atmosferico che ha generato la prima mareggiata. In particolare, abbiamo patito una fase prefrontale con venti da sud e piogge molto intense che hanno portato l’alluvione in Toscana. Passato il ciclone si è insediato un minimo secondario che ha avuto il suo perno nel nord Italia che ha innescato venti da sud ovest”.

Il fatto che la mareggiata abbia battuto le coste durante la mattinata, ha portato tante persone ad affollarsi per osservare il fenomeno ma in troppi, forse catturati dal fascino delle onde, si sono spinti troppo oltre mettendo a rischio la propria vita e quella dei soccorritori.
Guardare una mareggiata si può, ma serve farlo nel modo corretto. Benedetti ne ha fatto una missione tanto da scriverne un libro insieme a Stefano Gallino e Luca Onorato dal titolo “Wave Watching. Lo spettacolo delle mareggiate in Liguria”.
“Le mareggiate sono sempre state motivo di attenzione per le opere e per le attività ma sono anche di forte impatto emotivo. Le onde sono pur sempre uno spettacolo ma devo considerare che per guardare la mareggiata non devo mettermi in pericolo bilanciando perfettamente lo spettacolo e la sicurezza. Quando questo equilibrio viene meno si creano situazioni molto rischiose. Quando l’onda si infrange sulla scogliera o su un ostacolo, proietta acqua a ottanta chilometri orari, vuol dire venti metri al secondo. Non siamo in grado di allontanarci a una velocità tale. Bisogna mettersi in sicurezza prima che arrivino le onde. Venti metri non sono tanti ma il tempo che l’acqua impiega per raggiungerci è brevissimo. Vuol dire non avere vie di fuga. Non si scappa a ottanta chilometri all’ora quando scoppia l’onda e questa è una certezza matematica”.
Il ricercatore sottolinea ancora come i modi per farsi male siano molteplici, non solo l’onda che trascina in acqua rendendo impossibile raggiungere nuovamente la terraferma, ma una caduta o un piede messo male possono essere rischi altissimi anche per l’incolumità di chi va in soccorso dei malcapitati.
Le mareggiate restituiscono a riva tutto quello che l’uomo lascia in mare, diventa impossibile quindi non fare una fotografia dello stato di salute dei nostri mari ma per Benedetti l’argomento è complesso: “Il mare reagisce, accoglie quello che puntualmente gettiamo, come la bottiglietta, ma anche i grossi volumi di rifiuti e inquinanti che depositiamo con i processi industriali. Apporti che, reiterati giorno per giorno e in diverse parti del mondo, sono una delle principali cause di quello che stiamo osservando sia a livello di atmosfera che poi parla col mare, ma anche di immissione diretta nel mare stesso”.
Ancora: “Viviamo il paradosso della frustrazione di non poter fare nulla perché siamo piccola cosa rispetto a quei processi industriali che da decenni spostano gli equilibri in maniera planetaria. Ognuno, quando si ritrova con la famosa bottiglietta in mare, può scegliere se buttarla in acqua, fregandosene, o metterla da parte. Non c’è una risposta immediata ma di certo non possiamo lasciarci tentare dalla scorciatoia mentale di pensare che ogni singolo gesto non sia importante. Sarebbe ingiusto, sia dal punto di vista personale sia verso chi viene dopo di noi anche perché non vale più l’alibi della non consapevolezza. Cambiare i nostri consumi può essere il segnale per l’industria, per far sì che cambi la produzione, ma serve anche una regia più ampia che è quella dei governi. Si deve imparare ad agire in modo lungimirante”.
A questo punto la domanda nasce spontanea: gli eventi del 3 e 5 novembre sono collegati al cambiamento climatico? “La risposta – conclude Benedetti – è che c’è una fortissima ragione per sospettarlo. Per poterlo dire con certezza, servirebbe applicare il rigore scientifico e raccogliere dati per altri cinquant’anni. Con tutto quello che è stato messo in gioco, non si può più escludere un’ipotesi di questo tipo”.