di DANILO SANGUINETI
Due parole sulla Resistenza? Ancora?! Passata la festa, gabbato il partigiano. Siamo franchi: ad una quota – che si sospetta crescente – di italiani il battage sui media e le messe laiche del 25 aprile 1945 provocano insofferenza. Un ‘Che Barba-che Noia-che Barba’ a stento mascherato da una formale accettazione di rituali svuotatisi nei decenni di una convinta adesione con sentimento e intelletto. Attenzione. Non si tratta di quella, per il momento ancora minoritaria (?), frazione di Paese che da sempre sta ‘sull’altra sponda’, che per anni ha morso il freno e che adesso non vede l’ora di poter manifestare a chiare lettere la sua avversione ai valori resistenziali. Qui si parla della maggioranza, ignara prima che silenziosa, di coloro che sono nati dopo – dai Boomer a discendere anagraficamente sino alla ‘Generation Z’ – che di quanto accaduto tra il 1943 e il 1945, di come si arrivò alla Guerra Civile, di che cosa realmente accade in quei 19 mesi tremendi, cosa provocarono e che cosa ancora oggi determinano, non sa molto e tutto sommato neppure è interessata a capire.
Eppure 78 anni dopo ci sarebbe tanto da discutere e tantissimo da scoprire. Per esempio rivedere l’intera affabulazione sul ruolo delle donne nella lotta partigiana – le gonne che svolazzano in bicicletta, le armi e i documenti celati nelle sporte o nella biancheria intima, iconologia pericolosamente vicina alle ‘Signorina Grandi Firme’ di Boccasile – e raccontare come queste ragazze, mogli, fidanzate, amiche, intellettuali e popolane, giovani e nonne, cittadine e contadine, vissero, patirono e morirono per affermare i loro diritti combattendo contro un duplice avversario, il nemico nazifascista e il maschilismo, avversario meno evidente eppure spesso altrettanto spietato.
Ai nostri giorni hanno guadagnato maggior evidenza per ragioni meramente biologiche ma il fatto che sono sopravvissute ai loro compagni non è nella maggioranza dei casi bastato per ripagare gli anni nei quali venivano sempre tenute un passo indietro. Ancora oggi sorge il sospetto che in molti casi siano solo usate come comode testimonial della tipologia del partigiano dal volto umano o che vengano interpellate solo per parlare dei ‘grandi capi’ che non sono più. Invece avrebbero vite-odissea da svelare, meriterebbero un risarcimento almeno morale delle orrende torture fisiche e psicologiche inflitte loro perché erano due volte colpevoli, ribelli all’autorità e al maschio-padrone.
L’aspetto meno noto, e per questo ancora più orripilante, delle ingiustizie patite riguarda quanto accaduto nel dopoguerra in un Paese che avevano contribuito a restituire alla democrazia e che le ringraziava etichettandole con processi al limite dell’infamia. È disturbante leggere alcune sentenze partorite da magistrati in gran parte sopravvissuti, con ineffabile presupponenza, ai processi di epurazione del 45-46. D’altronde quelli furono tutto fuorché un repulisti. E il non avere fatto realmente i conti con il Ventennio è il vero peccato originale della Repubblica.
La professoressa Michela Ponzani, docente di Storia Contemporanea all’Università di Tor Vergata, autrice dello splendido ‘Guerra alle donne’, ha appena dato alle stampe ‘Processo alla Resistenza’ (Einaudi), un saggio su cosa accadde ai partigiani dopo il 25 aprile. In esso è citata una sentenza della Cassazione del 1947 nella quale gli autori della violenza ad una partigiana (detenuta e ripetutamente torturata) si vedevano prosciolti dall’accusa di aver commesso un crimine di guerra. Erano riconosciuti colpevoli di una offesa all’onore e al pudore della donna. Derubricata a violenza minore perché la vittima, avendo vissuto l’esperienza della guerra in banda, dimostrava una certa libertà sessuale…
Gli accusati rientravano nella amnistia Togliatti (1946) che escludeva dal provvedimento solo i responsabili di torture ‘particolarmente’ efferate. Si stupiscono solo coloro che non ricordano storie come quella di Gaetano Azzariti che nel 1939 fu nominato presidente del ‘Tribunale della razza’, che rimase al suo posto sino al 25 luglio 1943 e che senza soluzione di continuità fu ministro della giustizia nel primo governo Badoglio, consulente giuridico del guardasigilli Togliatti nel 1945-46, presidente del Tribunale superiore delle acque pubbliche, in pensione dal 1951, nominato nel 1955 dal Presidente Gronchi giudice della Corte Costituzionale, di cui nel 1957 diviene presidente eletto dai suoi colleghi, sino al 1961, anno della morte. Le colpe come si vede sono ben distribuite.
I celebranti, che non riescono più a farsi ascoltare, debbono interrogarsi quanto e più del gregge che anno dopo anno si assottiglia. Come è possibile che in Italia non ci sia un Museo della Resistenza ‘generale’ e solo una miriade di musei dedicati a questo o quale fatto. Non esiste un luogo della memoria di didattica potenza paragonabile allo splendido Museo della Shoah di Berlino. Aveva ragione lo scrittore che descrisse meglio di tutti quanto accadde, Beppe Fenoglio, nel suo incipit folgorante de ‘I 23 giorni della città di Alba’: “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944”. Siamo il paese delle vittorie a multi-paternità e delle sconfitte anonime. Eppure occorre non rassegnarsi. Tenere in vita la Resistenza non è rifugiarsi nel passatismo. Si deve riflettere sull’ieri per capire l’oggi e migliorare il domani. Brecht compiangeva i paesi che hanno bisogno di eroi. Per quelli senza memoria, però, profetizzava addirittura la sventura.