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Giovedì 27 novembre 2025 - Numero 402

L’allontanamento del Generale Kellogg è un pessimo segnale per l’Ucraina

Il militare in pensione nei mesi scorsi ha rappresentato un aggancio sicuro per Kiev a Washington. Ora che se ne va, la speranza di una pace giusta è ridotta al lumicino
Il generale Keith Kellogg lascerà l’amministrazione Trump a gennaio 2026
Il generale Keith Kellogg lascerà l’amministrazione Trump a gennaio 2026
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Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.

di MATTEO MUZIO *

Il generale Keith Kellogg lascerà l’amministrazione Trump a gennaio 2026, segnando la fine di una breve stagione in cui Kiev poteva contare su un interlocutore stabile a Washington. La sua uscita rappresenta il tramonto dell’illusione che i filo ucraini avessero un peso reale nell’attuale Casa Bianca.

Il generale in pensione Keith Kellogg, inviato speciale della Casa Bianca per l’Ucraina, ha comunicato ai suoi collaboratori l’intenzione di lasciare l’incarico a gennaio 2026. La decisione è stata presentata come un “termine naturale”, legato alla normativa che limita a circa 360 giorni gli incarichi non confermati dal Senato. Ma dietro la formula burocratica si intravede un dato politico: la perdita di uno dei pochi funzionari che, all’interno dell’amministrazione Trump, aveva mantenuto una linea di sostegno chiaro a Kiev.

Veterano del Vietnam e già consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente Mike Pence, in carica durante il primo mandato di Trump, Kellogg era stato scelto come volto credibile per un compito delicato: mantenere aperto un canale con l’Ucraina in un contesto segnato da ambiguità e oscillazioni. Nonostante la retorica della “pace da raggiungere in un giorno” agitata dal presidente, Kellogg aveva condannato con fermezza gli attacchi russi alle infrastrutture civili e si era scontrato con altri inviati, come Steve Witkoff, più inclini a riprendere la narrativa del Cremlino.

La sua uscita segna il tramonto di un’illusione: che nell’amministrazione Trump potesse esistere una corrente filoucraina capace di influenzare le scelte strategiche. In realtà, Kellogg è rimasto una voce isolata, spesso marginalizzata da un apparato che ha oscillato tra il pragmatismo negoziale e l’eco delle posizioni russe. La sua partenza lascia Kyiv senza un referente diretto e accentua la percezione di una Casa Bianca più interessata a chiudere il conflitto alle condizioni di Mosca che a garantire la sicurezza ucraina.

Per il paese invaso dalla Russia la notizia è un colpo duro: Kellogg era considerato un interlocutore sensibile, capace di comprendere le esigenze ucraine e di mediare con Washington, con una figlia che vive nella capitale ucraina che spesso gli ha fornito una visione diretta dello stato delle cose, senza le mediazioni della diplomazia e dei servizi. Per l’Europa, la sua uscita conferma che la nuova amministrazione americana non intende investire capitale politico nel sostegno a Kyiv, preferendo un approccio negoziale che congeli l’adesione alla NATO e alleggerisca le sanzioni contro Mosca.

L’allontanamento di Kellogg non è solo una vicenda personale o burocratica: è il simbolo di un cambio di paradigma. La breve stagione dei filoucraini nell’amministrazione Trump si chiude con un senso di disincanto. L’illusione che il governo di Volodymyr Zelensky potesse trovare sponde forti a Washington si dissolve, lasciando spazio a un realismo che guarda più a Mosca che a Kyiv.

Una saldatura tra il dittatore russo e l’aspirante autocrate americano che, oltre a poter contare su un’affinità caratteriale conta anche su legami nascosti e più sinistri, legati ad affari ancora da chiarire dove la figura chiave è l’ambiguo mediatore Steve Witkoff, privo di esperienza diplomatica che spesso si è fatto notare per le posizioni eccessivamente filorusse. Per spezzare questo legame c’è solo una via: quella del lavoro sotterraneo che smonti pezzo per pezzo la fiducia tra Mosca e Washington e ridia respiro all’internazionalismo dei repubblicani di matrice reaganiana, ormai ridotti al lumicino anche al Congresso.

(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)

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