Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. In questa puntata ospitiamo un articolo sulla alleanza atlantica. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.
di MARCO ARVATI *
Usciti dal summit Nato di Vilnius, che ha tenuto banco negli scorsi giorni, è impossibile non certificare una nuova vitalità del Patto militare costituito nel 1949. Probabilmente stiamo parlando di quella che è la più grande sconfitta culturale della strategia messa in atto dal Presidente russo Vladimir Putin: l’aver fatto scoppiare una guerra – a suo dire – per il timore di un allargamento forzoso dell’Alleanza Atlantica fino al confine russo, che ha portato alla più grande condivisione di ideali e intenti dei contraenti del Patto dalla caduta dell’Unione Sovietica.
Solo cinque anni fa, alla riunione in Canada dei Paesi del G7, l’allora Presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva paragonato l’Alleanza al Nafta, un Trattato di libero scambio con Canada e Messico diventato simbolo di tutto ciò che non andava nella visione estera degli Stati Uniti. Non solo aveva quindi depotenziato di molto la forza simbolica che la Nato rappresenta – tanto che l’anno successivo il Presidente francese Macron parlerà di “morte cerebrale” del Patto – ma addirittura aveva criticato in modo mirato il suo fondamento, l’Articolo 5, quello che prevede la mutua assistenza tra tutti i membri dell’Alleanza nel caso uno di questi venisse attaccato da una potenza esterna. Nella visione trumpiana solo chi sosteneva il bilancio Nato pagando la sua equa parte poteva averne diritto.
L’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo ha nuovamente generato, però, un clima di unione nella Nato, tanto che Paesi notoriamente neutrali e da sempre contrari ad aderire al Patto, come Finlandia e Svezia, hanno chiesto a gran voce l’ingresso. Nel giro di pochi anni l’Organizzazione è passata dall’essere un ente costoso e criticato al club più esclusivo cui prendere parte.
Il vertice Nato a Vilnius ha generato tre importanti vittorie per gli Stati Uniti: la prima è il passo avanti che si è fatto per quanto concerne l’ingresso della Svezia nell’Alleanza, bloccata fino a questo momento dal veto del Presidente turco Erdogan. La Svezia ha fatto molto per far sì che Erdogan cedesse, da emendamenti costituzionali, a leggi antiterrorismo più severe fino all’estradizione di un limitato numero di esponenti curdi rifugiati in Svezia che per la Turchia sono considerati terroristi. La stretta di mano tra il Segretario Generale Stoltenberg, il Premier svedese Kristersson e lo stesso Erdogan nascondono però una ratifica ancora di là da venire: in Turchia sarà infatti il Parlamento a dover ratificare questa apertura, e non si riunirà per i prossimi due mesi.
In secondo luogo le sirene dell’allontanamento degli Usa dalla Nato vengono indebolite dal fatto che i Paesi hanno deciso di spendere di più, togliendo un punto importante alla narrazione di quei Repubblicani isolazionisti, che vedono ancora in Trump il loro leader, che appunto criticavano un Patto in cui la grande maggioranza dei soldi era foraggiata da un unico Paese, gli Stati Uniti appunto. È molto importante perché una Nato senza una forte volontà statunitense ha scarso valore, dato che il compito di deterrenza non può essere svolto primariamente dall’Europa, a cui manca sia una credibile potenza militare sia un’unità strategica.
La terza vittoria bideniana, da alcuni membri criticata, è quella di non aver delineato una chiara roadmap per l’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza; se il premier Zelensky sperava di ottenere certezze, e un chiaro segnale di possibilità di ingresso non appena la situazione bellica si fosse stabilizzata, ha invece ottenuto una proposta di invito “quando tutti gli alleati saranno d’accordo e le condizioni raggiunte”. È una vittoria per due Paesi, Stati Uniti e Germania, che non volevano legarsi troppo alla certezza dell’ingresso ucraino, contro il blocco dei Paesi dell’Est – Polonia in testa – che volevano delineare una chiara strada per l’ingresso di Kyiv. Al netto di questo ragionamento rimane importante comprendere che esiste un’accettazione culturale dell’Ucraina come possibile membro Nato, dato che nessun Paese si è ufficialmente opposto a un’adesione futura.
Riannodando i fili del discorso è interessante anche sottolineare l’egemonia nel discorso politico dell’Alleanza Atlantica che ricopre il quadrante di Nord-Est, quello cui appunto è legato il conflitto tra Russia e Ucraina. La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che per interesse strategico italiano è più interessata ad altri fronti Nato, in particolar modo quello meridionale, non ha potuto permettersi di smarcarsi troppo dagli altri. Ha infatti necessità, poco prima di una visita di Stato a Washington che si sta per svolgere, di ribadire la sua posizione marcatamente atlantista e vicina agli interessi americani, anche per via di una coalizione di governo in cui una parte della maggioranza ha da sempre una posizione più sfumata nei confronti della Russia di Putin, per non dire entusiasta in alcuni momenti storici.
(* collaboratore di Jefferson, scrive anche per Harvard Business Review Italia)