di ANTONIO GOZZI
In queste tristi giornate di confinamento da Coronavirus e di vigilia del 25 aprile, che non potremo celebrare come al solito, ripenso ai nostri vecchi che hanno vissuto la guerra e la Liberazione e mi chiedo quale atteggiamento avrebbero nei confronti della pandemia.
Probabilmente sorriderebbero e scuoterebbero la testa non convinti dall’abusata metafora della ‘guerra’ per ciò che stiamo facendo contro il nemico invisibile. E questo non certo per sminuire il lavoro straordinario, fino al sacrificio della vita, svolto da moltissimi medici, infermieri, volontari in prima linea negli ospedali e sul territorio contro il Covid, ma perché avendo vissuto una guerra vera, durata non pochi mesi ma cinque anni, ne misurerebbero con facilità le differenze con la vicenda attuale.
Le vite sono tutte egualmente importanti e gli italiani, almeno fino a quando non è esplosa la drammatica situazione delle RSA, si sono giustamente vantati di aver difeso la vita degli ottantenni con la stessa forza e dedizione con la quale hanno difeso quella dei giovani. Ma quando si stilerà il bollettino finale delle perdite si vedrà che esse riguardano nella stragrande maggioranza le persone anziane, moltissime persone anziane. È probabile che il numero totale dei decessi per Covid-19 supererà quello dei civili italiani morti nella Seconda guerra mondiale (poco più di 28 mila).
In una guerra vera, e quella scatenata dalla follia nazifascista lo è stata, scompaiono soprattutto giovani mandati a morire senza un perché, morti per salvare il mondo dalla follia. I giovani militari italiani morti tra il 1940 e il 1945 sui vari fronti di guerra sono stati quasi 200 mila.
I nonni chiederebbero ai nipoti: “Quanti amici tuoi coetanei hai perduto in questa che chiamate guerra?”, e la risposta sarebbe probabilmente nessuno.
Loro, i nonni, invece avevano perso fratelli, cugini, compagni di scuola, fidanzati. Avevano visto morire i loro coetanei fino all’ultimo minuto come successo al giovane partigiano Ottorino Bersini ‘Basea’, un bresciano chissà come arrivato in Liguria, morto in uno scontro armato sulla collina di Chiavari proprio all’alba del 25 aprile come ci ha ricordato dalle pagine del ‘Secolo XIX’ Getto Viarengo.
I nostri vecchi, oltre ai loro coetanei più sfortunati, avevano perso gli anni più belli della gioventù o passati sotto le armi al fronte, o in prigionia, o combattendo alla fine la battaglia della liberazione non solo contro le truppe di occupazione tedesche ma anche contro loro coetanei italiani finiti, tante volte senza saperlo, dalla parte sbagliata.
Eppure, nonostante un Paese sconfitto e in molte parti distrutto, erano usciti da quella immane tragedia con il sorriso sulle labbra, ballando il bughi con i soldati americani, speranzosi nel futuro. E in effetti in pochi anni con la loro forza e tenacia e con il loro lavoro ricostruirono l’Italia e ne fecero un paese importante e moderno.
Donne e uomini di poche parole e molti fatti, cresciuti con meno strumenti culturali, ma non per questo meno capaci di risollevare il Paese e di condurlo sulle strade di uno sviluppo straordinario: fu chiamato il miracolo italiano, e ciò grazie a un formidabile senso del dovere e a una fortissima cultura del lavoro.
Furono i nostri padri e le nostre madri, i nonni dei nostri figli, gli unici protagonisti in Italia di un efficiente ascensore sociale che cambiò la faccia al paese allargandone la fascia del benessere, cancellando l’analfabetismo, trasformando i contadini in operai, i figli degli operai in professionisti o insegnanti o imprenditori, creando un nuovo ceto medio.
Quella loro forza e tenacia, che devono ispirare i nostri comportamenti nella ricostruzione post Covid, e che dovrebbero essere festeggiate in una giornata speciale come si fa per il 25 aprile, mi ricordano la lettura biblica degli ebrei che fuggono dall’Egitto e dalla schiavitù. Per ricordare l’Esodo e tramandare di generazione in generazione la storia della liberazione con le sue enormi sofferenze e avversità, ma anche con la sua enorme speranza, gli ebrei hanno il precetto di recitare nella loro Pasqua una preghiera che si chiama la Haggadah. Quella preghiera insegna pazienza e resilienza, e insegna ad aver fiducia che la situazione migliorerà. Quella preghiera si chiede ‘Perché questa notte è diversa da tutte le notti?’ e risponde ‘Perché è quella che ci porta alla Liberazione’.
Come la lunga notte di sofferenza in Egitto, e la lunga notte di sofferenza del nazifascismo con l’orrore dei campi di sterminio, supereremo anche questa notte di chiusure e di pandemia. Come ci insegna la Haggadah, non sappiamo come, ma sappiamo che ci siamo già passati e siamo andati avanti.
Buon 25 aprile a tutti!!!