di MATTEO MUZIO *
La Corte Suprema americana, nelle intenzioni dei Padri Fondatori, doveva essere un organismo non eccessivamente forte, in modo da non intaccare il potere esecutivo del presidente né quello legislativo del Congresso. La massima autorità giudiziaria del Paese avrebbe dovuto essere quindi ancillare rispetto agli altri due organismi della nuova repubblica, dando solo pareri legislativi su richiesta.
La tentazione della politicizzazione, però, è arrivata quasi subito, dopo le prime elezioni veramente combattute, nel 1800: il presidente uscente John Adams, federalista e favorevole a un rafforzamento del potere centrale, nelle ultime settimane della presidenza nominò il suo segretario di Stato John Marshall nella carica di giudice capo della Corte Suprema. Marshall restò in carica fino al 1835 e trasformò il ruolo della massima autorità giudiziaria del Paese, rendendo stabile il principio della ‘revisione costituzionale’: ovvero qualora una maggioranza dei giudici sia concorde, si possono cancellare leggi statali o federali su queste basi.
Nel corso dei decenni la Corte ha avuto poteri ‘a fisarmonica’: quando il Congresso e la presidenza lavorano in armonia, in genere è più debole. Quando invece c’è il muro contro muro, la Corte diventa dirimente. Ed è stato il caso di gran parte degli ultimi anni. Per questo la nomina dei giudici è diventata cruciale. Nel periodo di massima collaborazione tra i partiti, durante gli anni della Guerra Fredda, poteva capitare che un repubblicano nominasse un giudice progressista, aderente alla teoria della ‘Costituzione vivente’, un concetto che vede la carta costituzionale adeguarsi con il tempo ai cambiamenti della società. D’altro canto, era altrettanto possibile che un democratico nominasse un conservatore che invece sposava il cosiddetto ‘originalismo’, una filosofia giuridica opposta che invece si lega a una stretta osservanza di quanto sostenuto dai Padri Fondatori.
Negli ultimi anni no. Soprattutto il partito repubblicano di matrice trumpiana ha mostrato una grande spregiudicatezza nel nominare i giudici della Corte Suprema, ma non solo. Grazie a un patto di collaborazione con il capogruppo repubblicano al Senato Mitch McConnell, le corti sono state riempite di giudici conservatori, che in teoria dovrebbero rendere più difficile il lavoro di una presidenza di segno diverso. E in effetti così è stato, come nel clamoroso caso Dobbs v. Jackson, dove la Corte Suprema ha demandato agli stati ogni decisione sui diritti riproduttivi delle donne, rimuovendo la protezione federale che era stata stabilita da un’altra sentenza, la Roe v. Wade del 1973.
Quest’anno però sono emersi degli scandali che hanno colpito due giudici appartenenti all’ala originalista: da un lato il giudice Clarence Thomas, forse il più conservatore di tutti i nove alti magistrati, avrebbe accettato per anni ospitalità in resort di lusso da parte di un suo amico, Harlan Crow, uno dei miliardari texani più attivi nelle donazioni ai candidati repubblicani, mentre il suo collega Samuel Alito, l’autore della sentenza Dobbs, avrebbe accettato un viaggio in Alaska per una battuta di pesca offerta dal presidente del fondo d’investimento Elliott Management a favore del quale avrebbe deciso con un’altra sentenza.
La difesa dei due giudici è che non hanno fatto nulla di strettamente illegale e Alito ha scritto sul ‘Wall Street Journal’ un editoriale in punta di diritto per dimostrarlo. C’è però un problema di opportunità politica, che si innesta su uno strapotere della Corte. Se in Italia è il campo conservatore ad aver mostrato maggior determinazione nel tentare di riformare la macchina della giustizia, negli Stati Uniti sono i democratici ad aver sempre visto la Corte Suprema come un potere da riformare, anche a causa della maggioranza ideologica dei giudici, che attualmente vede sei ‘conservatori’ contrapposti a tre magistrate ‘progressiste’. Si va dalla demagogica proposta dell’ala radicale, che propone semplicemente di aumentare il numero dei giudici con un’infornata di progressisti. Un’altra proposta invece propone di fare dei lunghi mandati ventennali che comunque rendono i giudici meno inamovibili e più ‘regolamentabili’. Dato che, quando ci sono delle problematiche di natura etica come quelle succitate, la Corte Suprema giudica sé stessa con delle linee etiche interne autostabilite, con un paradosso stridente con gli altri poteri che invece possono vedere stracciato il loro lavoro con una sentenza di poche pagine. Anche per questo però ci vorrebbe la collaborazione dei repubblicani, che al momento fanno orecchie da mercante. Rischiando però, in un futuro non troppo lontano, di avere una Corte progressista.
(* giornalista e ideatore del blog Jefferson – Lettere sull’America)