Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.
di MATTEO MUZIO *
Nel 2017 uno dei fattori che aveva contribuito a tenere a freno i peggiori istinti di Donald Trump era la struttura stessa del partito repubblicano: già allora il tycoon flirtava con l’autoritarismo modello putiniano, che si circondava di fan provenienti dalle fila della cosiddetta “alt-right”, una destra molto radicale cresciuta nei forum di discussione online e già emanava un divieto draconiano di immigrazione da sette paesi a maggioranza musulmana.
Eppure il suo partito non lo aveva ben digerito a fondo, e sembrava sempre sul punto di scaricarlo. Pur accogliendolo dopo le sorprendenti vittorie alle primarie e alle presidenziali del 2016, rimaneva un corpo estraneo. Quel partito però fece un patto di convenienza: Trump sarebbe stato libero di governare e di imporre la sua agenda radicale sull’immigrazione e sull’imposizione di dazi, ma in cambio avrebbe dato al partito un fisco leggero e un sistema giudiziario radicalmente cambiato.
Oggi che fine ha fatto quel partito? Sparito, quasi liquefatto. Ridotto a un pugno di grandi vecchi che lanciano allarmi democratici. Come uno dei pochi oppositori rimasti al Senato, l’ex leader Mitch McConnell ormai ridotto a essere un “partito di uno”, che peraltro tende ad alzare la sua flebile voce di uomo di Stato anziano sulle nomine di politica estera. McConnell però finge di non essere stato decisivo nel primo mandato per nominare in modo spregiudicato tre nuovi giudici conservatori nella Corte Suprema, consentendo a Donald Trump la spregiudicatezza odierna nell’essere il socio di minoranza di una diarchia con il tecnocrate Elon Musk che usa i suoi strumenti tecnologici per bersagliare gli avversari politici, ma anche i governi esteri.
Come ad esempio l’Ucraina da oltre tre anni impegnata in un duro conflitto con un brutale invasore imperialista, scaricata in favore di una nuova politica estera neocoloniale che mira a spartirsi le risorse del mondo con altre potenze aggressive che desiderano ridisegnare i confini del mondo. E in tutto questo che fanno gli esponenti repubblicani, anche quelli notoriamente critici del tycoon? Abbozzano e poi votano a favore. Esemplare è il caso delle senatrici Susan Collins del Maine e Lisa Murkowski dell’Alaska, due moderate che però hanno votato a favore di due personaggi controversi come Tulsi Gabbard quale nuova direttrice dell’intelligence e Robert Kennedy Junior, noto per le posizioni novax, quale nuovo segretario alla salute.
Qualche abbozzo, qualche rassicurazione e via come se nulla fosse accaduto. Hanno persino confermato lo stesso Russell Vought, misconosciuto esponente integralista cristiano, che ora è a capo dell’Ufficio Management e Budget. Una carica dalla quale può controllare i livelli di spesa dei vari governi per realizzare il sogno di Trump e dei suoi accoliti: il cosiddetto governo unificato, una presidenza onnipotente che può permettersi di bloccare fondi allocati dal Congresso e di ignorare ordini delle corti federali. Un governo autoritario sul modello dell’Ungheria di Orban, paese esaltato dai giornalisti di area come “vera patria delle libertà”. Una libertà che però si applica solo a una parte e questo vale anche per la libertà d’impresa, da sempre uno dei totem intoccabili del partito repubblicano dai tempi di Abraham Lincoln che puntava il dito contro il “lavoro rubato” dalla concorrenza sleale dei possidenti schiavisti. Oggi anche le imprese, comprese le grandi multinazionali del tech, devono essere deferenti nei confronti del leader e lo abbiamo visto il giorno dell’inaugurazione. Se in queste settimane si è scritto molto della crisi dei democratici, poco si è scritto di un partito repubblicano ormai ridotto all’ombra di se stesso, un guscio vuoto di un culto della personalità che ricorda più una setta religiosa che una formazione politica gloriosa come il Gop, che parte integrante ha avuto nello sviluppo degli Stati Uniti come democrazia.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)