Combattere la precarietà è giusto, ma il lavoro non si crea per legge.
Crescita, successo competitivo, fiducia, investimenti e quindi impresa sono gli unici strumenti capaci, nelle moderne economie di mercato, di generare occupazione e di consolidarla nel tempo.
Le imprese industriali italiane, troppo spesso negli ultimi tempi, hanno sofferto di dimensioni ridotte rispetto ai competitors stranieri, se non addirittura di nanismo.
A cosa si deve questo fenomeno? Scarsità di capitali, vincoli burocratici, rigidità sindacali e del mercato del lavoro hanno spesso spinto le imprese italiane ad autolimitarsi nella crescita sia in termini di investimenti che di occupati.
Le più capitalizzate in molti settori hanno privilegiato gli investimenti in automazione per superare le rigidità sindacali e della forza lavoro e dell’altissimo costo di quest’ultima (purtroppo associato, a causa della pesantezza degli oneri fiscali e contributivi, ad un salario molto basso, se confrontato con quello dei lavoratori di altri paesi europei).
Le aziende meno forti, terrorizzate dalla prospettiva di irrigidire troppo la struttura dei costi e di non potersi ridimensionare nei momenti di crisi, hanno privilegiato forme di lavoro part- time, contratti a tempo determinato e altre forme di lavoro precario.
La precarizzazione del lavoro nell’economia moderna dipende anche dalla profonda trasformazione delle attività, con un ridimensionamento, almeno occupazionale, dell’industria e la crescita impetuosa delle attività di servizio, che esigono alti livelli di flessibilità del lavoro, non sono territorialmente radicate, richiedono livelli di professionalità e skills spesso molto più bassi di quelli richiesti nell’industria.
Le statistiche ci dicono che in Italia non ci sono livelli di part-time e di contratti a termine o di mini-jobs superiori alla media europea, e comunque l’86% dei lavoratori e dipendenti ha nel nostro Paese un rapporto a tempo indeterminato.
Questo il quadro nazionale, all’interno del quale irrompe in questi giorni il cosiddetto ‘decreto dignità’. Di Maio da settimane ne fa il suo cavallo di battaglia, ritenendo che le imprese, dovendo assumere, lo faranno secondo le regole imposte dalla legge, per cui sarà sufficiente ridurre o sopprimere le norme ‘infami’ della precarietà per avere occupazione più stabile e qualificata.
Non gli passa neppure per l’anticamera del cervello che ‘il cavallo non beva’, e cioè che, pur di non avere in carico manodopera di cui non potrebbe avvalersi con continuità a causa delle instabilità del mercato e di andamenti incerti degli ordinativi, qualunque azienda preferisca non assumere anche a costo di rinunciare a qualche commessa aleatoria.
Il capolavoro del ‘capo politico’ e neo-ministro e vicepremier lo si trova nella revisione della normativa del contratto a termine di cui alla riforma Poletti del 2014, la quale aveva consentito una discreta ripresa del mercato del lavoro.
L’uso discrezionale da parte del datore di lavoro – senza cioè dover fornire motivazioni – viene ridotto da 36 a 24 mesi. Le eventuali successive proroghe dovrebbero ora rispondere ad esigenze prescritte e perciò accertabili in giudizio. Tali esigenze non dovranno essere generiche, bensì: a) temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, nonché sostitutive; b) connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria; c) relative a lavori e picchi di attività stagionali individuati con decreto dal Ministero del Lavoro.
Non solo Confindustria, ma tutte le organizzazioni datoriali (Confagricoltura, Conferesecenti, CNA, Confartigianato ecc) si sono espresse contro la filosofia del decreto ritenendola profondamente sbagliata anche rispetto agli obiettivi che si diceva di voler perseguire (in particolare la riduzione della precarietà).
Nello specifico, la riduzione della flessibilità per le imprese e la reintroduzione delle causali aumentano l’incertezza e il contenzioso sui contratti a termine, e l’aumento del costo degli degli indennizzi sui licenziamenti può scoraggiare la stipula di contratti a tempo indeterminato.
Quindi, come si vede, si va in direzione opposta rispetto alle intenzioni del governo.
È molto probabile invece che la reazione delle imprese agli errori del decreto sarà un maggiore ricorso a tecnologie labour saving, l’adozione di forme organizzative che privilegino il lavoro straordinario, l’aumento del turnover.
In sintesi si tratta di un provvedimento che contrasta con l’introduzione di un clima positivo, di fiducia, favorevole alle imprese e all’accoglimento di nuova forza lavoro.
A chi ha fatto notare che nella relazione illustrativa del decreto vi è il forte rischio che lo stesso nei prossimi dieci anni trasformi 80mila precari in altrettanti disoccupati, Di Maio non ha trovato di meglio che gridare al complotto. Il complotto dei ragionieri , quello dell’INPS, quello delle ‘lobby di tutti i tipi’, quello dei servi del vecchio governo, quello di oscure forze del male.
Il nuovo che avanza usa la logora e stolida retorica del complotto. Ma in fondo una ragione c’è. Una recente indagine demoscopica condotta su 3050 individui conclude che addirittura il 56.5% degli elettori M5S ritiene che ‘una parte rilevante della nostra vita è controllata da complotti di poteri forti’.
Invece di riconoscere di aver scritto un decreto sbagliato nelle soluzioni, il neo-ministro inventa ad uso del suo elettorato (o forse ci crede anche lui?) un colpevole qualsiasi esterno e astratto.
Metodo di governo da webmaster.