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Giovedì, 1 giugno 2023 - Numero 272

La democrazia alla prova della ‘datocrazia’ digitale

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La rivoluzione digitale ci appare oggi finalmente nella sua complessità. Non più soltanto esaltazione del progresso tecnologico, del libero accesso all’informazione, dell’abbattimento di barriere all’ingresso a distanza, dell’orizzontalità e conseguente uguaglianza, ma anche tante altre cose meno brillanti, più oscure e problematiche, talvolta inquietanti.
Di cosa stiamo parlando?
Degli effetti ormai evidenti della pervasività dei dati digitali e del loro utilizzo che cresce in modo esponenziale e influenza la nostra vita quotidiana e ormai anche la politica. Siamo in una sorta di datocrazia, è troppo temere per il futuro della democrazia?
Il quesito non è eccessivo se si pensa al fatto che nell’era digitale è cresciuto il divario tra ricchi e poveri, la disoccupazione è endemica, i media tradizionali agonizzano (con il rischio di perdere ogni informazione approfondita, ragionata, non ‘instant’), siamo invasi e tormentati da ‘fake news’ , la sfiducia nelle istituzioni dilaga così come i vari populismi.
Ma ciò che è più grave per la democrazia e per il mercato (essendo nella nostra visione occidentale i due termini inscindibilmente legati) è il fatto che, ad onta dell’orizzontalità, del decentramento, del libero accesso, la rete è di fatto in mano a quattro superpotenze oligopolistiche.
Facebook, Amazon, Google e Apple fanno enormi profitti con varie forme di business online diventando sempre più grandi e sempre meno controllati. Operano infatti in un ambiente non regolato, in maniera sovente non trasparente e si infastidiscono se qualcuno chiede loro conto di ciò che fanno.
È il loro modello di business, super-opaco e falso, che consente loro – assertori (falsi) della simmetria informativa e proponenti della (falsa) gratuità dei loro servizi – di accumulare, controllare, utilizzare e vendere miliardi di dati personali di chi, in maniera per lo più inconsapevole, li ha messi a loro disposizione.
Steve Bannon, uno dei patron di Cambridge Analytica, la società che ha utilizzato in modo non etico i dati di miliardi di ignari utenti di Facebook, l’uomo così a destra che neanche Trump è riuscito a mantenerlo nel suo staff, in un recente tour italiano a sostegno del nuovo potere (M5S e Lega) ha dichiarato con brutale franchezza: “Di che vi stupite? Perché vi indignate per l’utilizzo di dati da parte di Facebook? Il modello di business di Zuckerberg è esattamente questo: utilizzare e vendere i dati delle persone”.
L’illusione e l’esaltazione di una nuova democrazia, una democrazia diretta permessa dalla rete, si manifesta in realtà come un’enorme concentrazione di potere nelle mani di pochi che attraverso il web e le sue applicazioni controllano i destini di molti, ne orientano le letture, i gusti, le mode, le opzioni politiche.
Grazie a questa illusione che si trasforma in vera e propria distorsione cognitiva, la specializzazione e le competenze vengono ormai contestate. Tutti, mediante l’accesso alla rete, possono essere (o meglio credersi) esperti  di tutto: macroeconomia, fisica, medicina, vaccini. Tutti pensano, con il loro business, di poter accedere al mercato globale abbattendo ogni barriera all’entrata e raggiungendo chiunque nel mondo.
In questa ‘bolla’ non conta neanche che le imprese guadagnino. Ciò che conta sono la crescita del fatturato e le ‘metriche’, cioè alla fine il numero di utenti contattati con il proprio prodotto o servizio, utenti i cui profili diventano la vera merce che ha valore e che verrà offerta al miglior offerente.

Se proviamo ad analizzare la situazione con lo sguardo dell’economista e ragioniamo in termini di tutela della concorrenza e del mercato ci rendiamo conto che la rete, al di là dell’ideologia e dell’esaltazione del ‘nuovo mondo’, per molti aspetti e in molti casi provoca gravi distorsioni della competizione e dei mercati stessi.
La progressiva concentrazione unita a una struttura sempre più oligopolista è la conseguenza ineluttabile del modello di business in cui non risiedendo il guadagno effettivamente sulla vendita di prodotti o servizi resi (proprio perché il vero valore sta nello scambio del dato-merce approvvigionato surrettiziamente dai clienti raggiunti) la rete consente di gestire business che sembrano ‘reali’ (ma che in realtà sono pretesti per la raccolta di dati) anche con gravi perdite.
Queste perdite sono causate dai prezzi in dumping, che danno così al consumatore l’illusione di estrema convenienza proveniente dalla rete: ad esempio, per quanti anni e quanto ha perso Amazon nonostante una patrimonializzazione di borsa miliardaria?
Queste politiche di prezzi in dumping e di gravi perdite conseguenti sono uno straordinario meccanismo di competizione sleale e di reale asimmetria nei confronti di tutti quegli attori economici che, praticando lo stesso business di prodotti e/o di servizi (in questo caso business reale e non apparente) in dimensioni più ridotte e meno digitali, non hanno da vendere il dato-merce e quindi soccombono.

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