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di MATTEO MUZIO *
Nel marzo del 1987, Ronald Reagan pronunciò un discorso che oggi suona come un monito dimenticato: “Nel lungo periodo, i dazi danneggiano tutti gli americani, lavoratori e consumatori. Scatenano guerre commerciali che nessuno vince.” Queste parole, ripescate da un archivio della Biblioteca Reagan, sono tornate alla ribalta in modo inaspettato: in uno spot televisivo canadese trasmesso durante le finali della Major League di Baseball.
Lo spot, commissionato dal governo dello stato dell’Ontario, guidato dal conservatore Doug Ford, aveva un obiettivo preciso: contestare le politiche protezioniste dell’amministrazione Trump, che ha minacciato nuovi dazi contro l’importazione di acciaio e alluminio canadese. Ma il vero effetto dello spot è stato un altro: ha messo a nudo la distanza abissale tra Donald Trump e Ronald Reagan, due presidenti repubblicani che incarnano visioni opposte del mondo, dell’economia e del ruolo dell’America.
La reazione della Casa Bianca è stata immediata e furiosa. Trump ha accusato il Canada di “manipolare la memoria di Reagan” per fini politici, ha interrotto i colloqui commerciali bilaterali e ha minacciato nuove sanzioni. La Fondazione Reagan ha preso le distanze dallo spot, sostenendo che il messaggio era stato “estrapolato dal contesto”. Nessuno però ha messo in dubbio l’autenticità delle parole.
E qui sta il punto: il contesto è cambiato, ma il principio resta valido. Reagan era un convinto sostenitore del libero commercio, della cooperazione internazionale e della diplomazia economica. Trump, al contrario, ha costruito la sua leadership su un’ideologia nazionalista e protezionista, che vede il commercio globale come una minaccia e non come un’opportunità.
Per comprendere la portata dello strappo, bisogna tornare agli anni ’80. Reagan, pur essendo un conservatore duro sul piano fiscale e militare, credeva nel potere del mercato globale. Firmò accordi commerciali con il Giappone, l’Europa e il Canada, sostenne il GATT (antenato del WTO) e promosse una visione dell’America come “faro del mondo libero”.
La sua retorica era ottimista, fondata sull’idea che il commercio fosse un ponte tra le nazioni. “Quando i beni attraversano le frontiere, i soldati non lo fanno”, amava ripetere. Reagan vedeva il protezionismo come una tentazione pericolosa, capace di innescare spirali di ritorsioni e di danneggiare la competitività americana.
Trump ha rovesciato questa visione. Dal 2016 in poi, ha fatto dei dazi uno strumento di pressione geopolitica. Ha imposto tariffe su acciaio, alluminio, pannelli solari, lavatrici, e ha minacciato dazi su auto europee e prodotti agricoli. Ha ritirato gli Stati Uniti dal TPP (Trans-Pacific Partnership) e ha rinegoziato il NAFTA in chiave più restrittiva.
La sua retorica è fondata sul concetto di “America First”, che non è solo uno slogan, ma una dottrina: l’idea che gli interessi americani vadano difesi anche a costo di rompere alleanze, trattati e consuetudini. In questo schema, il commercio è una guerra, non una cooperazione.
Il caso dello spot canadese è emblematico. Non si tratta solo di una polemica tra due governi. È il simbolo di una frattura ideologica profonda. Il Canada, evocando Reagan, ha voluto ricordare agli americani che esisteva un tempo in cui il Partito Repubblicano credeva nel libero mercato e nella forza dell’America come idea e prestigio, non soltanto come gretto potere economico e militare.
La risposta di Trump, invece, ha confermato la sua visione: ogni critica è un attacco, ogni alleato è sospetto, ogni memoria storica è manipolabile. Il fatto che Reagan venga travisato dalla sua stessa famiglia politica (persino dall’istituzione che ne ospita le spoglie e l’archivio presidenziale) è il segno di una mutazione genetica.
Il Partito Repubblicano di oggi non è più quello di Reagan. È drasticamente trasformato: il conservatorismo fiscale ha ceduto il passo al populismo economico, e in cui la politica estera è guidata dalla diffidenza anziché dalla leadership.
Lo spot canadese ha avuto il merito di ricordarci che la destra americana ha avuto un passato diverso, fatto di pragmatismo, apertura e visione globale. E che quel passato è stato sepolto sotto il peso di una leadership che ha stravolto quest’eredità politica, spesso con disprezzo per le istituzioni e per la verità storica.
In un’epoca di revisionismi e di polarizzazione, recuperare la memoria di Reagan non significa idealizzarlo, ma riconoscere che esisteva un partito repubblicano radicalmente diverso, che però oggi appare lontano nel tempo come quello di Abraham Lincoln o di Teddy Roosevelt.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)