Xavier Jacobelli, giornalista e direttore di molte testate, riceverà venerdì 27 maggio alle 18 a Wylab il Primo premio giornalistico Mimmo Angeli insieme a Fiorenza Sarzanini.
Le prenotazioni per seguire il premio a questo link: https://www.eventbrite.it/e/biglietti-il-premio-mimmo-angeli-a-fiorenza-sarzanini-e-xavier-jacobelli-338967740637.
di MATTEO GERBONI
Ascoltare la sua carriera significa aprire uno squarcio su un giornalismo italiano che brillava per firme autorevoli e prestigiose, di giornali che si dividevano tra notizie, inchieste e reportage. Un mondo ormai estinto, fatto anche di orari notturni massacranti, tipografie ruggenti e direttori monarchi assoluti, ma anche capaci di insegnare la professione.
Xavier Jacobelli è un grande protagonista del giornalismo sportivo degli ultimi 40 anni. Persona perbene, giornalista attento e scrupoloso, direttore lungimirante nelle strategie.
Praticante a vent’anni, giornalista professionista a ventidue, direttore a trentotto. La carriera di Xavier Jacobelli è iniziata nel 1978 a Video Bergamo, emittente tv bergamasca all’epoca diretta da Vittorio Feltri. Poi il passaggio a ‘La Notte’, il giornale del pomeriggio, dove conobbe Mimmo Angeli.
“Sono onorato di ricevere questo premio perché sono stato a lungo collega di Mimmo Angeli, un vero cronista, di eccezionale qualità. Lo conobbi quasi 40 anni fa. Era il 1983, da Bergamo passai alla redazione centrale de ‘La Notte’ a Milano e iniziai a coordinare l’edizione delle regioni che contemplava ovviamente anche quella ligure. Angeli era il corrispondente da Genova. Ricordo bene la sua capacità di essere sempre presente, non so quante suole di scarpe consumasse. Sapeva essere costantemente sulla notizia. Erano gli anni di piombo, il capoluogo ligure era una città martire, e lui inviava dei pezzi straordinari. Aveva una rete di fonti invidiabile. Era un giornale che vendeva 180 mila copie, il direttore era Livio Caputo. Lavoravamo giorno e notte, con tre edizioni in edicola”.
Un tempo fare il giornalista era la professione che sognavano in tanti, oggi è passato di moda?
“Devi avere tanta passione e la voglia di fare tanti sacrifici. È un mestiere che ti consente di vivere dignitosamente, ma non ti arricchisce e comporta molte rinunce sotto il profilo umano e personale, mettendo a dura prova le relazioni interpersonali perché è una professione totalmente fuori degli schemi dal punto di vista degli orari. Poi per chi fa il giornalista sportivo non esistono weekend, visto che la maggior parte degli avvenimenti sportivi sono concentrati nel fine settimana. Un giornalista lavora normalmente per dodici, tredici ore per il giornale”.
Le caratteristiche di un buon giornalista?
“Credo sia fondamentale una buona conoscenza dell’italiano. Io ricorderò sempre ciò che mi disse Montanelli incrociandolo: ‘Scrivi come mangi’. Purtroppo, in questi anni, troppo spesso esiste il malvezzo di ricorrere a parole straniere senza spiegarne il significato, come se tutti lo conoscessero. In particolare, ritengo che sia fondamentale una cultura di base e tre criteri imprescindibili: l’autorevolezza, l’attendibilità e la credibilità”.
Internet ha cambiato radicalmente il modo di fare informazione.
“Stiamo vivendo una rivoluzione permanente. Nel 2006 mi affidarono la direzione di Quotidiano.net, il primo quotidiano web di informazione. Sono passati sedici anni, sembrano sedici secoli. Oggi c’è molta superficialità. Internet è un formidabile strumento di democrazia che amplia le fonti della conoscenza di tutti, ma si è persa l’abitudine a controllare le fonti, ad effettuare riscontri. Tutto questo deprime la qualità dell’informazione. Si tende solo a fare copia e incolla, con le bufale che diventano notizie solo perché vengono pubblicate da molti siti”.
La gavetta di un tempo è soltanto un nostalgico ricordo.
“Si imparava a fare il mestiere, grazie alla disponibilità e alla bravura di colleghi che non erano volti noti e che tantomeno sapevano cosa sarebbero stati i social. Ma insegnavano i rudimenti del mestiere, insegnavano un titolo, come si scrive un pezzo, come si fa la tipografia o la fotografia in tipografia, come si scrive una didascalia. Nel 1984 durante i giochi di Los Angeles servivano ragazzi nella redazione sportiva per fare le notti. Mi proposi e alla fine dell’esperienza iniziai a scrivere di Milan, ma passarono tre mesi prima vedere la mia firma in fondo a un pezzo”.
Oggi sarebbe impensabile…
“Spesso vado nelle scuole, dalle elementari alle superiori, a parlare di questa professione e mi accorgo che esiste e resiste lo stereotipo del grande inviato con la valigia sotto la scrivania, sempre pronto a partire e questo riguarda non solo il giornalista sportivo, ma ne stiamo avendo anche oggi ampia dimostrazione con la guerra e gli inviati di guerra. Non bisogna però dimenticare che questa è la punta dell’iceberg di una professione che invece comporta un lavoro spesso oscuro, fatto di capacità di documentarsi, di costruirsi un archivio personale, di cercare di controllare una notizia alla fonte e di non essere travolti o pervasi dalla smania dello scoop a ogni costo, perché il vero scoop è, secondo me, quello di fare bene e seriamente il proprio lavoro”.
Però lo scoop di ‘Tuttosport’ su Ronaldo…
“Era il primo luglio 2018. Titolammo Ronaldo-Juve, che storia. La maggior parte dei colleghi ci prese bonariamente in giro. Invece dietro a quella notizia c’era un eccellente lavoro della squadra di ‘Tuttosport’ che aveva ‘seguito’ il suo procuratore, attendendolo dieci ore, mentre incontrava i dirigenti juventini. Dopo un paio di giorni un quotidiano portoghese riprese la notizia e diventò vera per tutti”.
Come muoversi tra le pieghe insidiose del calcio mercato?
“Si tratta di una materia assai infida, con tanti interessi contrastanti. E il web ha reso tutto ancora più complicato”.
Gli articoli a cui è maggiormente legato?
“In ordine di tempo certamente il commento dopo l’impresa dell’Italia di Mancini a Wembley, ma anche la ripresa dell’attività agonistica dopo la sosta di 105 giorni per il Covid. Sono molto orgoglioso anche della campagna di ‘Tuttosport’ a difesa degli ideali olimpici che mi ha permesso di ricevere il Collare d’Oro al merito sportivo dal Coni”.
I suoi maestri?
“Sono certamente due i giornalisti ai quali sono legato da profondo vincolo di gratitudine. Il primo si chiama Giangavino Sulas, cognome tipicamente sardo anche se è nato a Bergamo. Figlio di un Ufficiale dell’Esercito, Giangavino è stato il primo collega con il quale ho lavorato nella redazione bergamasca de ‘La Notte’. Avevo 19 anni e lui ha avuto la pazienza e la capacità di insegnarmi a fare il cronista e di spiegarmi come si trovano le notizie. L’altro giornalista che è stato certamente importante per me è Vittorio Feltri, perché io avevo 19 anni e collaboravo con Video Bergamo che era una neonata emittente bergamasca diretta proprio da Feltri che all’epoca lavorava al ‘Corriere della Sera’ e arrivava stanco la sera da Milano e aveva la pazienza di insegnarmi come si scrivono le notizie con il linguaggio giornalistico per la televisione, che sono diverse rispetto a un articolo di giornale. Ho avuto poi la fortuna di ritrovare Feltri quindici anni dopo, dal 1994 al 1997, quando lui dirigeva ‘Il Giornale’ e mi chiamò a fare il caporedattore dello sport ed è stato per me come fare media, liceo, università e master. Nei tre anni trascorsi con lui ho imparato molte cose e non soltanto nel modo di fare il giornalista, ma anche di come dirigere una redazione. Credo comunque che l’insegnamento più importante che Feltri mi ha dato sia stato quello di ragionare sempre con la mia testa e di non avere mai paura di andare contro corrente”.