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Giovedì, 8 giugno 2023 - Numero 273

Italo Calvino fra brevità e divertimento. Tutto cominciò nel 1942 con il ‘rifiuto’ di Einaudi

Da giovanissimo autore si vide bocciare una prima raccolta di storie intitolata ‘Pazzo io o pazzi gli altri’ perché non era unitaria
Italo Calvino, uno dei più famosi scrittori italiani del Novecento
Italo Calvino, uno dei più famosi scrittori italiani del Novecento
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di ENRICO ROVEGNO *

Fra i tanti anniversari che cadono in questo 2023, per limitarci a quelli che raggiungono per la prima volta la cifra tonda del secolo dalla nascita bisognerà ricordare almeno Rocco Scotellaro, il poeta e narratore lucano divenuto famoso soltanto dopo la morte precoce, a trent’anni, nel 1953; Giovanni Testori, pittore, narratore, poeta e soprattutto drammaturgo di grandissima e non sempre compresa qualità; e Italo Calvino, saggista, animatore della scena editoriale ma, soprattutto, forse il più grande interprete novecentesco della ‘forma breve’ che coltivò dagli esordi fino alla fine, alternando romanzi brevi e racconti.

Tutto cominciò nel 1942, quando un giovanissimo Calvino si vide rifiutare da Einaudi una prima raccolta di storie intitolata ‘Pazzo io o pazzi gli altri’ (“la nostra casa non accoglie per principio che libri unitari”, il motivo del rifiuto): invece di darsi per vinto, il giovane Italo si cimentava nuovamente con una serie di raccontini (‘Apologhi esistenzialistici’ o ‘Raccontini di dopodomani’) che avrebbero visto la luce soltanto postumi. La scrittura rapida e i dialoghi surreali denotavano la passione del loro autore per i fumetti e per il cinema, ma la prima era già segno di una inclinazione che poi sarebbe divenuta frutto di una precisa scelta poetica.

Nel frattempo, dopo aver vissuto in prima persona la Resistenza sulle colline del ponente ligure, nel 1946 Calvino confessa in una lettera a un altro scrittore, Silvio Micheli, che l’incontro – proprio da Einaudi – con Cesare Pavese sembra averlo (almeno per il momento) orientato a forza verso il romanzo, sia pure nella sua forma breve (“Io pensavo di fare un librettino di racconti, tutto bello pulito stringato, ma Pavese ha detto no, i racconti non si vendono, bisogna che fai il romanzo. Ora io la necessità di fare un romanzo non la sento: io scriverei racconti per tutta la vita”). In realtà, nel dicembre del 1946 finisce di scrivere il suo primo romanzo, ‘Il sentiero dei nidi di ragno’, che Einaudi pubblicherà nel 1947; ma a gennaio di quello stesso anno usciva su ‘L’Unità’ ‘Ultimo viene il corvo’, racconto nato anch’esso, come il romanzo, da una riflessione e più ancora dalla partecipazione alla Resistenza: “Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, ‘bruciati’, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità […] Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del mio primo romanzo”: così l’autore in una mirabile prefazione-saggio scritta nel 1960.

L’oscillazione resta comunque fra due soluzioni narrative non agli estremi opposti (il ‘raccontino’ come quelli appena ricordati vs un romanzo di ampio respiro); di oscillazione possiamo però senza dubbio parlare, specie di fronte a dichiarazioni come questa: “Da un po’ di tempo pubblico molto poco sulle terze pagine, i racconti non mi soddisfano più e mi sembra d’aver detto tutto quello che coi racconti si può dire. Col romanzo invece non riesco ancora a dire tutto quello che vorrei”: così in una lettera a Giansiro Ferrata del dicembre 1947, cioè scritta dopo aver pubblicato i bellissimi racconti di ‘Ultimo viene il corvo’, e sulle soglie di una stagione creativa segnata, sì, dall’opzione romanzesca tra il conte philosophique allegorico e fantastico dei Nostri antenati o da quella più incline al realismo rappresentata, ad esempio, dalla ‘Giornata di uno scrutatore’: ma anche – tra fine anni Cinquanta e inizio Sessanta – da un ritorno al racconto davvero significativo, se si pensa a ‘L’entrata in guerra’, ma soprattutto alla prima edizione dei Racconti, e poi a Marcovaldo, ovvero ‘Le stagioni in città’ (senza contare la grande opera di restauro, traduzione e ricreazione narrativa rappresentata dalle ‘Fiabe italiane’).

E va detto che quella di Calvino si configura con il passare degli anni sempre più come una vera ‘poetica della brevità’, tanto che molto più tardi, inconsapevolmente vicino alla fine non solo della sua carriera di scrittore ma anche della sua esistenza, nelle ‘Lezioni americane’ degli anni Ottanta, pubblicate postume, egli avrebbe sostenuto che “Il mio lavoro di scrittore è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo. […] È difficile mantenere questo tipo di tensione in opere molto lunghe: e d’altronde il mio temperamento mi porta a realizzarmi meglio in testi brevi: la mia opera è fatta in gran parte di short stories […] Certo la lunghezza o la brevità del testo sono criteri esteriori, ma io parlo d’una particolare densità che, anche se può essere raggiunta pure in narrazioni di largo respiro, ha comunque la sua misura nella singola pagina”.

Per tornare a quella dichiarazione di intenti a Ferrata del ’47, il tentativo di dire “tutto quello che vorrebbe” con il romanzo prende anche una direzione connotata in maniera importante dal tentativo di divertire se stesso e il lettore: “Quando ho cominciato a scrivere ‘Il visconte dimezzato’, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente per divertire gli altri […] Io credo che il divertire sia una funzione sociale, corrisponde alla mia morale; penso sempre al lettore che si deve sorbire tutte queste pagine, bisogna che si diverta, bisogna che abbia anche una gratificazione; questa è la mia morale: uno ha comprato il libro, ha pagato dei soldi, ci investe del suo tempo, si deve divertire”.

Nel caso specifico, poi, parte non piccola nel gioco del ‘divertimento’ ebbe il rapporto con la critica: “E i critici potevano cominciare ad andare su una falsa strada: dicendo che quel che mi stava a cuore era il problema del bene e del male. No, non mi stava a cuore per niente, non avevo pensato neanche un minuto al bene e al male […] io avevo usato un ben noto contrasto narrativo per dare evidenza a quel che mi interessava, cioè il dimidiamento. Dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a sé stesso è l’uomo contemporaneo”. E infatti, sia pure mantenendo costante l’obiettivo di un divertimento intelligente, lo scopo di Calvino si rivelava molto serio – come testimoniato in questa Postfazione del 1960 da cui stiamo attingendo – pur avendo incominciato a scrivere la storia fantastica di Medardo di Terralba, visconte dimezzato, come un “passatempo privato”: “Certo risentivo, pur senza rendermene ben conto, dell’atmosfera di quegli anni. Eravamo nel cuore della guerra fredda, nell’aria era una tensione, un dilaniamento sordo, che non si manifestavano in immagini visibili ma dominavano i nostri animi […] Il mio intento era combattere tutti i dimidiamenti dell’uomo, auspicare l’uomo totale, questo è certo”.

In ogni caso sembra evidente che l’interesse manifestato da Calvino a partire dagli anni Sessanta per le lezioni di Roland Barthes, per il gruppo Ou-li-po di Queneau e Perec e per la loro idea di letteratura ‘combinatoria’ (che avrà poi per lui gli esiti più importanti nel Castello dei destini incrociati e nella Città invisibili) altro non è che un nuovo sentiero creativo percorso alla ricerca di quel ‘divertimento’ che lo scrittore si proponeva come scopo fin dagli anni Cinquanta. E non può trovare soluzioni narrative al di fuori di quelle ipotizzate fin dall’inizio da quella ‘poetica della brevità’ cui già accennavamo. Fin dai suoi inizi narrativi e fino alla fine: nelle già citate ‘Lezioni americane’, la forma breve veniva teorizzata come l’unica in grado di realizzare l’altro obiettivo cosciente, quello della rapidità della scrittura.

“Il mio lavoro di scrittore è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo. […] Come per il poeta in versi così per lo scrittore in prosa, la riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che di regola vuol dire una paziente ricerca del mot juste, della frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di significato. Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile.

È difficile mantenere questo tipo di tensione in opere molto lunghe: e d’altronde il mio temperamento mi porta a realizzarmi meglio in testi brevi: la mia opera è fatta in gran parte di short stories. […] Certo la lunghezza o la brevità del testo sono criteri esteriori, ma io parlo d’una particolare densità che, anche se può essere raggiunta pure in narrazioni di largo respiro, ha comunque la sua misura nella singola pagina”.

E contestualmente Calvino indicava nelle sue ultime opere, le ‘Città invisibili’ e il più recente ‘Palomar’, l’esito della sua inesausta ricerca di quel tipo di ‘tensione’ (e, si è tentati di aggiungere, di divertimento) che già aveva cercato nelle ‘Cosmicomiche’ e in ‘Ti con zero’. Un esito, si potrebbe dire, più orientato nella direzione fantastica (che d’altro canto aveva seguito con successo fin dai ‘Nostri antenati’) che in quella pseudoscientifica (che pure gli aveva consentito di ottenere risultati molto positivi, si pensi ad esempio al Premio Viareggio vinto proprio da ‘Ti con zero’).

Dal veloce riepilogo fatto da Calvino in quella lezione sulla Rapidità resta però esclusa un’opera che con ogni evidenza si colloca lungo la sua ricerca di brevità e divertimento, ma seguendo un’altra direzione, quella che possiamo senz’altro definire metaletteraria: Se una notte d’inverno un viaggiatore. Questo infatti, pubblicato quattro anni prima dei racconti di ‘Palomar’, è un vero meta-romanzo, una riflessione sulla letteratura affidata al Lettore, che ne è protagonista, mettendo in campo alcuni degli strumenti narrativi più tradizionali, dalla cornice – dove si svolge appunto la storia del Lettore e della Lettrice – agli incipit, che di fatto ne costituiscono dieci possibili sviluppi, sostituendo i capitoli di un unico e impossibile romanzo.

“È un romanzo – dice Calvino in una conferenza stampa nel 1984 – sul piacere di leggere romanzi; protagonista è il Lettore, che per dieci volte comincia a leggere un libro che per vicissitudini estranee alla sua volontà non riesce a finire. Ho dovuto dunque scrivere l’inizio di dieci romanzi d’autori immaginari, tutti in qualche modo diversi da me e diversi tra loro”.

Sembra la confessione definitiva (l’anno dopo Calvino morirà) che alla base della scelta dello scrittore per la rapidità, la brevità, il gioco combinatorio, stia proprio questo “piacere”: non solo evidentemente di “leggere romanzi” ma anche, romanzi o racconti che siano, di scriverli.

(* Responsabile della Biblioteca della Società Economica di Chiavari)

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