Il voto di domenica scorsa era un voto sull’Europa.
Si chiedeva in sostanza ai cittadini europei se era il caso di confermare un’idea, una visione politica e culturale che, per la prima volta dopo più di 700 anni ne aveva garantiti 70 senza guerre, oppure se si dovesse abbandonare quella visione e ritornare ai nazionalismi, agli steccati, alle identità etniche e religiose, ai populismi di varia natura che erano stati agitati, praticamente in tutte le nazioni, dalle forze politiche del cosiddetto fronte sovranista.
La risposta è stata chiara e inequivoca. Nonostante il forte arretramento dei popolari e dei socialisti che negli ultimi 30 anni hanno guidato le istituzioni europee, e nonostante la grande vittoria leghista in Italia e il voto importante dei francesi per il Rassemblement National di Marine Le Pen, lo sfondamento sovranista non c’è stato e nel nuovo Parlamento Europeo c’è una larga maggioranza di ispirazione europeista.
Certo è una maggioranza diversa e più articolata rispetto al passato, e per il momento non è ancora politica. Una maggioranza che avrà bisogno dei verdi, largamente votati dalle giovani generazioni e con una visione diversa ed innovativa, specie in Germania dove ha avuto il più grande successo, rispetto alle rigidità opprimenti dell’austerità e del fiscal compact. Una maggioranza che avrà bisogno dei liberali dell’ALDE, importanti perché sono l’esempio di un’area moderata che mai ha avuto tentazioni sovraniste e populiste.
Ecco, il tema oggi è tutto qui. I cittadini hanno dato il segnale fondamentale, ma il più grave errore che il vasto partito europeista non deve assolutamente fare è pensare che nulla sia cambiato e che tutto possa continuare come prima, affidando i destini d’Europa ad una burocrazia guardiana tecnicista ed elitaria e ad un’impostazione tutta giocata sugli equilibri finanziari e di bilancio.
Il tema vero è che vastissimi strati di popolazione europea hanno dato segni di ansia, di sofferenza, di rabbia e di paura. E questi sentimenti così diffusi derivano fondamentalmente dalla gravità delle diseguaglianze: diseguaglianza tra chi il lavoro ce l’ha e chi non ce l’ha, diseguaglianze crescenti di reddito, violenta crescita delle diseguaglianze di ricchezza, gravi divari territoriali nell’accesso ai servizi fondamentali tra cittadini delle periferie o delle aree rurali e cittadini dei centri metropolitani, nuove fasce marginali di popolazione, quelle delle aree interne più fragili, gli operai, gli insegnanti.
In assenza di riferimenti politici e culturali convincenti e di capacità di risposta dell’europeismo tradizionale, burocratico, finanziario e mercatista a questi problemi, la rabbia e il risentimento che discendono da queste ingiustizie si sono tradotte in consenso acritico ai vari populismi e sovraninismi e ne hanno alimentato una dinamica autoritaria.
L’errore più grande che le classi dirigenti europee possono fare è ripetere il mantra che al ‘mainstream’ di un capitalismo finanziario e mercatista non c’è alternativa e che le politiche pubbliche invece di occuparsi di lavoro, di investimenti infrastrutturali, di crescita e di riduzione delle ingiustizie sociali, si devono prioritariamente occupare di politiche e di equilibri di bilancio.
La vera sfida europea, la verifica reale se il sogno può proseguire, parte da lì. E sarà uno sforzo ed un confronto difficilissimo, che richiederà grandissima visione e leadership. Bisognerà convincere i cittadini benestanti europei, che sono soprattutto al Nord, che senza solidarietà verso i più deboli l’Europa non esiste; e bisognerà convincere i cittadini soprattutto dell’Europa del Sud che non ci sono solo diritti ma anche doveri e responsabilità.
In bocca al lupo, Europa!