di ANTONIO GOZZI
Intervistato da Gilda Ferrari del ‘Secolo XIX’ a proposito della lettera di recesso inviata da ArcelorMittal, con la quale il gruppo franco-indiano ha annunciato di volersene andare da Taranto e dall’Ilva con effetto immediato, mi sono lasciato andare a caldo ad un’invettiva, cosa che mi capita di rado e che comunque non si deve mai fare: “Sono riusciti ad ammazzarla, è quello che volevano. Penso che Ilva muoia. Tanto hanno fatto che alla fine morirà davvero”.
Lo sfogo è spiegabile con la tristezza e la frustrazione di chi da sette anni cerca di difendere uno dei più importanti presidi industriali del Paese da un accanimento senza fine e comprende che la partita rischia di essere persa per sempre.
Sono diventato presidente di Federacciai all’inizio dell’estate 2012, poche settimane prima che la magistratura tarantina sequestrasse il cuore della fabbrica (la cosiddetta area a caldo, il luogo dove fisicamente si produce l’acciaio) e arrestasse i Riva e alcuni loro manager. Senza alcun giudizio definitivo (i processi sono ancora in corso), i magistrati decisero che i Riva erano dei delinquenti, dei mostri che avevano provocato un “disastro ambientale”, e che l’unica soluzione possibile era chiudere l’impianto.
Da neo presidente di Federacciai, mi trovai catapultato in una vicenda drammatica: la più grande industria siderurgica d’Europa, il cui significato è strategico non solo per Taranto e la Puglia, ma per tutta la filiera italiana della meccanica e della trasformazione dell’acciaio, si fermò per un ordine voluto dalla Procura della Repubblica, che si mosse sulla base di un teorema. Gli operai, immediatamente, invasero le vie di Taranto, l’opinione pubblica restò sconcertata, schiacciata tra ambiente e lavoro.
Io non avevo e non ho alcun interesse su Ilva, anzi: la Duferco, grande trader internazionale di acciaio, se le cose a Taranto vanno male, rischia di vendere qualche coils d’importazione in più.
Ma la gravità della vicenda mi apparve subito e per questo non mi limitai alla semplice solidarietà verso importanti associati a Federacciai quali i Riva, che conoscevo come bravi imprenditori e persone perbene, ma capii che la fabbrica andava difesa, anche al di là della proprietà, da un’onda ideologica anti-industriale e anti-sviluppista che stava montando nel Paese e che rischiava di fare danni gravissimi.
Da quei mesi caldissimi dell’estate 2012 è trascorso molto tempo, ma le cose si sono trascinate per anni fino all’epilogo odierno: prima con un esproprio senza indennizzo dei Riva, per ragioni ambientali, che resta una macchia indelebile nella reputazione giuridica internazionale del Paese; poi con cinque anni scellerati di Amministrazione Straordinaria in cui commissari senza alcuna competenza siderurgica hanno, con la loro gestione, disintegrato quattro miliardi di euro, che era il patrimonio netto di Ilva quando fu sequestrata ai Riva, e non sono riusciti a fare più di tanto sul piano del risanamento ambientale.
Infine, nell’autunno del 2018, finalmente un imprenditore privato, ArcelorMittal, la prima siderurgia del mondo, dopo una gara pubblica, dopo mesi e mesi di analisi e di stesure di un complesso contratto con il governo italiano (nel frattempo diventato giallo-verde), entrò a Taranto e s’impegnò su un piano ambientale, industriale e occupazionale.
Nella campagna elettorale di pochi mesi prima, il M5S, vero vincitore delle elezioni, aveva sostenuto con forza la tesi della chiusura dell’Ilva. Beppe Grillo propose di trasformarla in un parco giochi.
Ma Di Maio, diventato ministro dello Sviluppo Economico, e quindi responsabile del dossier, imparò presto la strada del realismo e firmò quel contratto con Mittal, anche se ci furono a Taranto e in Puglia, contro di lui e contro i parlamentari del Movimento, vere e proprie rivolte degli estremisti, aizzati a suo tempo proprio dal M5S.
Quel contratto prevedeva un piano industriale, un piano ambientale (il più rigoroso visto al mondo!), un piano occupazionale e quattro miliardi di investimenti!
Il cuore del contratto era la possibilità per ArcelorMittal di continuare a produrre acciaio con il cosiddetto ‘ciclo integrale’ (altiforni, cokeria e sinter), a condizione della realizzazione entro un periodo di tre anni di tutti gli interventi di risanamento ambientale.
L’accordo con il governo italiano prevedeva altresì una norma di tutela legale di amministratori e manager di ArcelorMittal rispetto a reati ambientali eventualmente commessi da altri prima del loro arrivo.
Dopo meno di un anno dalla firma di quel contratto – durante il quale ArcelorMittal ha lavorato intensamente per l’attuazione del piano ambientale e con interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sugli impianti – il governo della Repubblica cambia nuovamente idea ed elimina la norma di tutela. Mittal dice chiaramente che senza quella norma la fabbrica è ingestibile perché nessuno vuole assumersi la responsabilità di altri rischiando la galera e avverte che senza la reintroduzione di quella norma se ne andrà.
Due ex ministre pentastellate (Lezzi e Grillo), forse anche per ritorsione contro Di Maio che non le ha volute nel nuovo governo giallo-rosso, montano la rivolta in Senato (dove i numeri sono risicati) e fanno saltare con un emendamento la norma a lungo studiata da Di Maio in estate per reintrodurre la tutela legale.
Il resto è cronaca di questi giorni, con ArcelorMittal che annuncia l’addio e con un governo di incompetenti e di improvvisati colto apparentemente alla sprovvista, in cui il Pd sembra schiacciato sulle posizioni estremiste dei grillini.
Poche voci si levano a difendere l’Ilva. Ancora una volta politica e gran parte dei grandi giornali preferiscono seguire l’onda ambientalista e ideologica e sembrano rassegnati alla chiusura della fabbrica.
Di cosa succederà alle decine di migliaia di lavoratori diretti e indiretti legati alla siderurgia di Taranto non sembra interessare granché. Cassa integrazione a gogò per tutti.
È questa la decrescita felice, bellezza!
Una tragedia italiana.