Una settimana fa è stata posata la prima maxi-trave di impalcato del nuovo ponte di Genova.
Milleottocento tonnellate di acciaio distribuite su una lunghezza di circa cento metri, che costituiscono il collegamento viario tra i piloni n.8 e n.9 del ponte progettato da Renzo Piano.
A diciotto mesi esatti dal crollo del 14 agosto 2018 e a sette mesi dall’inizio dei lavori, oltre alla spettacolare e tecnicamente complessa fase del primo impalcato si registra il completamento della fase di innalzamento dei 18 piloni alti 90 metri che sorreggono il nuovo ponte (la foto in alto è del fotoreporter genovese Paolo Zeggio).
Si continua a pensare che il completamento dell’opera possa avvenire entro la primavera (cioè entro il 20 giugno) come promesso dal sindaco commissario Marco Bucci, quindi a meno di due anni dal crollo del ponte.
La vicenda ha dello straordinario: Renzo Piano ha detto che nell’efficientissimo Giappone per realizzare un’impresa del genere ci sarebbero voluti almeno tre anni.
E allora, che è successo a Genova?
È successo che ancora una volta l’Italia ha saputo gestire al meglio una crisi drammatica.
Prima gli interventi immediati del dopo-crollo. Ve lo ricordate il lavoro eroico dei vigili del fuoco in mezzo alle macerie per il salvataggio dei superstiti e il recupero delle vittime? La loro abnegazione e professionalità sono diventate il simbolo di come si debba operare in situazioni così drammatiche, ed enormi sono stati l’affetto e la riconoscenza della gente nei confronti di questo corpo dello Stato e dei suoi uomini.
Ma anche l’assistenza immediata e la quasi immediata ricollocazione in alloggi idonei alle centinaia di evacuati dalle case sotto gli spezzoni pericolanti del ponte sono state una dimostrazione di grande efficienza dei poteri locali, Regione e Comune.
Poi è venuto il tempo del decreto Genova, concepito come strumento legislativo indispensabile per fornire i mezzi finanziari, procedurali e di governance per accelerare al massimo la ricostruzione.
Governo e Parlamento, senza inutili contrapposizioni e polemiche tra maggioranza e opposizione, hanno seguito le indicazioni e le richieste del governatore Toti, che da un lato ha chiesto una legislazione speciale capace di tagliare ogni orpello e passaggio burocratico di quelli che normalmente nel nostro Paese bloccano le grandi opere, e dall’altro ha indicato come commissario unico alla ricostruzione il sindaco di Genova Marco Bucci.
L’obiettivo era di fare in fretta e anche bene, e fino ad oggi si può dire che tale obiettivo sia stato raggiunto.
Pensate se anche per gli altri 130 miliardi di euro già stanziati per opere varie in giro per l’Italia si riuscisse a fare la stessa cosa, eliminando i danni prodotti al Paese ed alla sua economia da una burocrazia guardiana e soffocante che ha trasformato l’immobilismo nell’unica forma di onestà consentita.
Vi è poi un’altra importante riflessione da fare sulla vicenda della ricostruzione del ponte di Genova.
La potenza di fuoco, l’organizzazione, la tecnologia, la professionalità, gli uomini che hanno consentito di rendere possibile questa straordinaria realizzazione provengono largamente da imprese pubbliche: Fincantieri, Italferr e Salini Impregilo, nella quale, come anche nelle prime due, l’azionista pubblico Cassa Depositi e Prestiti ha un ruolo essenziale.
In un momento e su un’attività nella quale certamente il capitalismo privato italiano non ha dato buona prova di sé, al di là delle responsabilità che saranno accertate in sede giudiziaria, le imprese controllate dallo stato ma gestite con efficienza e qualità manageriale danno una risposta importante e veloce.
La retorica di un liberismo ideologico ed estremista che per decenni ci ha voluto far credere che solo l’impresa privata sia capace di efficienza e generazione di valore è stata smentita dai fatti.
L’Italia è stata storicamente un Paese a capitalismo privato debole e talora straccione. Oggi la grande dimensione di impresa con la sua capacità di accumulazione e investimento, di ricerca e di innovazione, di spinta alla crescita da noi è presidiata quasi esclusivamente da imprese che un tempo si sarebbero chiamate a partecipazione statale: Eni, Enel, Leonardo (ex Finmeccanica), Fincantieri, Italferr, Cassa Depositi e Prestiti, Terna, Anas ecc.
Queste imprese sono una grande ricchezza dell’Italia, come ha dimostrato anche la tragica vicenda del ponte. Bisogna garantire loro traiettorie di sviluppo e di crescita, proteggendole dalle incursioni della politica, assicurando loro una governance fatta da management di qualità, costruendo scelte nazionali ed internazionali che consentano all’Italia di rimanere un grande Paese industriale.
Da Genova, storica città di quelle che furono le partecipazioni statali, e dalla sua risposta rapida ed efficiente al crollo del ponte, può venire al riguardo qualche spunto di riflessione non convenzionale.