di GIORGIO ‘GETTO’ VIARENGO *
Lo studio e la valorizzazione dell’archeologia industriale non ha avuto molta fortuna in Italia, nonostante lo sviluppo economico tra Ottocento e Novecento abbia realizzato manufatti unici e di grande valore.
I beni culturali scaturiti da questo processo economico non sono solo quelli edilizi architettonici, ma anche e soprattutto realizzazioni industriali o manufatti capaci di raccontare e rappresentare quel periodo. Vorrei proporre alcuni tratti riconoscibili e provare ad avviare una riflessione in merito alle scelte effettuate, dove l’incapacità della conservazione ha avuto seguito, ma soprattutto non ha avuto corso il riuso e la conservazione.
La principale questione è proprio nel rapporto tra la conservazione e il riuso dell’archeologia industriale come bene culturale unico, custode di preziose risorse, in grado di proiettare verso il futuro pregiati e originali manufatti di un significativo passato. Ricordo ancora le parole dell’architetto Guido Campodonico sui “cannocchiali” rappresentati da alcune prospettive urbanistiche di Chiavari. Una delle più preziose prendeva inizio da Piazza San Giovanni, proseguiva per l’omonima via e attraversava Piazza Mazzini, Via della Cittadella, Nostra Signora dell’Orto, Via delle Medaglie d’Oro e raggiungeva la Stazione Ferroviaria. Se osserviamo l’edificio della stazione, possiamo tuttora vedere le due rampe di scale che raggiungono la zona apicale dell’edificio; qui un manufatto in acciaio superava con un solo balzo i binari sottostanti per raggiungere Piazzale Leonardi e il fronte marino.
Il mitico ponte in acciaio è citato in un articolo del ‘Secolo XIX’ del 24 novembre 1968: “Si sono avviati i lavori per la costruzione del nuovo sottopasso eliminando il cavalcavia”. Con il completamento dei lavori scomparve nel nulla quel traliccio d’acciaio che aveva segnato una delle tracce più evidenti della rivoluzione industriale, e l’arrivo della strada ferrata in Chiavari. Non sono in grado di dire se fosse pericoloso, o se portasse in sé tali magagne da giustificarne la demolizione: la stampa del tempo ne annunciò la rimozione e la sostituzione col nuovo sottopasso.
Peccato che in più occasioni si sia parlato di ricostruire quel percorso verso il mare. Forse, con una valutazione più attenta e lungimirante dell’archeologia industriale e dei suoi prodotti, si sarebbe potuto non demolire il cavalcavia in modo così repentino.
La nostra città può vantare altri episodi legati a vicende industriali di notevole significato, molto spesso oggi dimenticati. Se ad esempio sfogliamo la stampa degli anni Venti, vi troviamo notizia della fondazione in Chiavari di un opificio per la costruzione di autovetture: si tratta della S.I.C, un’azienda fondata nel 1924 con sede in Via Entella e fabbrica nella zona di Ri. La Società Italiana Cyclecars perfezionò diversi brevetti e partecipò al Salone dell’Auto di Milano con una sua creazione originale, una vetturetta, all’epoca denominata Cyclecars, con un motore a due tempi bicilindrico di 500 centimetri cubici, dotata di un cambio a due marce. Se sfogliamo il catalogo ufficiale dell’esposizione ne troviamo conferma. Anche in questo caso, un episodio di grande significato non è riuscito a radicarsi nella memoria storica della nostra collettività.
Ennesimo recentissimo caso è la totale demolizione del complesso Ex Tirrenia Gas in Via Trieste. Non entrerò minimamente nella lunga vicenda, nella destinazione d’uso, né in merito alla mobilitazione dei cittadini e all’attuale realizzazione. Mi interessa unicamente una riflessione su quei capannoni, sulla loro architettura e sullo spazio circostante: caratteristiche che dovevano essere adeguatamente considerate nel loro contesto storico. Perché non si è valutato di riutilizzare quei grandi spazi per realizzare un complesso espositivo e per attività di convegni? In più occasioni avevamo sollecitato tale riflessione, ma fummo tacciati di “polemiche sterili”.
Di fatto, si giunse al totale abbattimento del complesso. Edifici centenari, con un’architettura ben definita, trabeazioni in legno e acciaio a sorreggere le falde dei tetti: nulla richiamò l’attenzione su questo patrimonio cittadino. Ancora una volta il tema del riuso non fece breccia, e le ruspe la fecero da vere protagoniste.
Eppure, le testimonianze di grandi recuperi industriali non mancano di certo. Vorrei a questo proposito citare un grande architetto contemporaneo e diventato chiavarese: Gaetano Moretti, che fu uno dei grandi protagonisti dell’urbanistica industriale. La sua più grande realizzazione è tuttora in piedi e rappresentativa dell’archeologia industriale, e figura tra i Beni Culturali del catalogo della Lombardia. Si tratta della Centrale di Trezzo sull’Adda, un grande complesso dismesso da anni e non demolito, ma completamente riusato e valorizzato.
Altra grande realizzazione dell’architetto Moretti fu il Villaggio Operaio di Crespi, un vero esempio riportato come testimonianza del valore dell’archeologia industriale in ogni contesto. Gaetano Moretti disegnò e realizzò il nostro cimitero monumentale, partecipò attivamente con Luigi Brizzolara a realizzare piazze e spazi pubblici, fu progettista del Piano Regolatore di Chiavari del 1934, costruendo così un profondo legame con la città.
Queste brevi riflessioni possono attirare l’attenzione sul passato più recente, quando alcuni manufatti avrebbero potuto essere rivalutati e fatti diventare testimonianze attive del progettare. Progettare è una parola dal forte significato, bella e potente, ma stride fortemente con il voler demolire in fretta. Forse a volte varrebbe la pena di fermarsi a pensare e a discutere. Non sono passati molti anni dalla grande demolizione del Cotonificio Olcese a Lavagna, una battaglia lunga e ricca di spunti, in cui di nuovo vinsero le ruspe.
Ora l’immagine del grande opificio rimane solo nella memoria fotografica. Qualcuno ne ricorda il crollo dell’alta ciminiera, quando una nuvola di calcinacci fu l’unico effetto speciale di quella triste giornata.
(* storico e studioso delle tradizioni locali)