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di ANDREA MURATORE *
Donald Trump non ha mostrato verso Benjamin Netanyahu e Israele da candidato presidente l’amicizia incrollabile che da Comandante in Capo degli Stati Uniti ha, dal 2017 al 2021, ostentato nelle parole e, soprattutto, nei fatti. Perlomeno non dal 7 ottobre 2023 a oggi. La difficile guerra di Israele a Gaza dopo i massacri di Hamas procede in maniera complessa, senza che Tel Aviv abbia ancora incassato alcuno dei suoi obiettivi militari definitivi: gli ostaggi sopravvissuti non sono stati tratti in salvo; la rete di tunnel di Hamas non è stata totalmente smantellata; ogni membro dell’organizzazione è lungi dall’essere “un uomo morto” (Netanyahu dixit). E se il presidente Joe Biden prosegue tentennando tra un sostegno retorico sempre più affievolito settimana dopo settimana e la difficoltà di trovare un compromesso diplomatico verso il più saldo alleato mediorientale, il suo predecessore (e aspirante successore) sfrutta le mani libere dell’opposizione. Mettendo la questione sul piano retorico prima ancora che politico. Ma tradendo, a suo modo, un certo imbarazzo.
Il 18 marzo Trump ha lanciato un appello per la fine della guerra; il 26 marzo all’Israel Hayom ha dichiarato che “Israele deve portare a compimento ciò che ha iniziato” e “finire la guerra”, ammonendo che “sta perdendo molto sostegno” a livello internazionale. Posizione ribadita il 4 aprile, quando significativamente ha detto che Tel Aviv “sta perdendo la PR War”, ovvero la guerra d’immagine, contro Hamas. Anche Trump molla Netanyahu, dunque? Non bisogna essere precipitosi. La volontà di Trump è legata a un principio tattico e a un dilemma strategico. Il tema tattico è connesso al fatto che il leader repubblicano mira a far sì che sia Israele, magari dopo un successo d’immagine, a porre fine alla guerra perché si accentui l’impotenza percepita del rivale e presidente in carica; il dilemma strategico è connesso al fatto che la guerra in Terrasanta rappresenta una mina potenzialmente più rischiosa di quella russo-ucraina per una possibile seconda amministrazione di The Donald. E giorno dopo giorno ne smantella uno dei successi di politica estera più sbandierati: l’ottenimento del mutuo riconoscimento tra Israele e i Paesi arabi celebrato nel 2020 alla Casa Bianca alla presenza di Netanyahu e degli esponenti di Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Gli Accordi di Abramo che nell’intenzione americana dovevano allargarsi all’Arabia Saudita si sono infranti. E con essi l’idea americana: costruire tra Israele e Paesi Arabi uno spazio di contenimento del vero nemico regionale, l’Iran.
Ora, per Trump tutto questo rappresenta una grana. Da uomo d’affari astuto oltre che da politico, per Trump vale il principio di costo-opportunità. Secondo cui oggi Netanyahu è una liability piuttosto che un asset per il suo gioco politico: di fronte a un’opinione pubblica repubblicana sempre più lontana dal sostegno al protagonismo estero degli Usa anche Bibi appare sacrificabile. L’idea di rifiutare crociate militari all’estero prevale anche sul binomio Israele-Usa forgiato da conservatori di Tel Aviv e repubblicani di Washington in nome dell’occidentalismo più spinto. Insomma, da qui a novembre serve intestarsi l’idea di una fine del conflitto per reagire a un’opinione pubblica americana sempre più disincantata sulla guerra a Gaza.
Ma sarebbe un errore pensare che Trump e i Repubblicani stiano mollando Netanyahu. La vulgata politica racconta di un Trump furibondo perché Bibi, nel 2021, fu lesto a congratularsi con Biden dopo la vittoria nelle elezioni ritenute “rubate” da The Donald. Che vuole tenere assieme il sostegno a Israele e il rifiuto della guerra. Ben evidente quando ha duramente attaccato Chuck Schumer, senatore ebreo del Partito Democratico, che ha chiesto un cambio di governo in Israele. Spostando il focus dalla guerra al tema istituzionale. “In realtà penso che odino Israele”, ha risposto Trump a Schumer in un’intervista al suo ex aiutante, Sebastian Gorka. “Penso che odino Israele. E il Partito Democratico odia Israele”, ha ribadito. E anche sulle proteste studentesche che infiammano i college la posizione è netta: è un “odio tremendo”, il giudizio lapidario di Trump, quello mostrato dai giovani universitari contro Israele. Il nodo della posizione di Trump sulla guerra si scinde da quella su Israele: l’obiettivo è far colpo sulla stessa presunta “maggioranza silenziosa” a cui, in fin dei conti, è bene far saltare in mente l’idea secondo cui la crisi di Gaza sia da vedere più come fallimento del tentativo di Biden di trovare una soluzione che come grande problema geopolitico. E sperare che il miglior alleato di Trump sia oggi Netanyahu come ieri The Donald sostenne Bibi spostando l’ambasciata Usa a Gerusalemme e tessendogli gli Accordi di Abramo. Una guerra in meno alla partenza di un possibile Trump 2.0 sarà sempre ben voluta. Se si potrà ottenere mettendo in cattiva luce Joe Biden, ancora meglio.
(* analista geopolitico ed economico)
Andrea Muratore, bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per ‘Inside Over’ e svolge attività di ricerca presso il CISINT – Centro Italiano di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.