di ENRICO ROVEGNO *
Nicoletta Bortolotti, ‘Un giorno e una donna’ (HarperCollins 2022). È un romanzo epistolare, che immagina uno scambio di lettere fra Christine de Pizan e la figlia suora, tra febbraio e luglio 1418. Ultima lettera quella della figlia, scritta 13 anni dopo. Christine non è un personaggio di fantasia, ma la scrittrice italiana (Cristina da Pizzano, veneziana, di famiglia originaria di Bologna) che alla corte di Francia, in prosa e in versi, fu di fatto il primo esempio europeo di scrittura al femminile, quattro secoli prima di Madame de Stael.
Quindi un romanzo biografico narrato in prima persona. Ma anche un romanzo storico: la Storia di Francia è come il palcoscenico sul quale si recita la storia di Christine, che dalla natìa Venezia si trasferisce con la famiglia a Parigi a seguito del padre, medico e astrologo invitato alla corte di Carlo V di Valois nel 1369, quando Christine è una bambina di cinque anni.
Dopo molti anni e molti eventi, privati e pubblici, Christine scrive una serie di lettere alla figlia Marie, che nel frattempo è entrata in convento a Poissy. Per raccontare la vicenda di questa donna straordinaria, Nicoletta Bortolotti (scrittrice già affermata e ben nota al pubblico: ricordiamo almeno Il giusto e la bugia che salvò il mondo su Oskar Schindler, e Disegnavo pappagalli verdi alla fermata del metro, storia vera di Ahmed Malis) ha fatto una scelta stilistica precisa: “Il tempo verbale più adatto per narrare Christine – scrive nella postfazione – ho ritenuto fosse il ‘prosaico’ passato prossimo. Quello che usa tanto bene Natalia Ginzburg”; e la sua scelta permette al lettore di entrare nelle pieghe delle due storie, quella privata della protagonista e della sua famiglia e quella pubblica dei re e dei nobili di Francia, ritrovandosi perfettamente a proprio agio, proprio come in una storia di famiglia.
Da una parte, dunque, i rapporti personali di Christine: con la figlia, innanzitutto, ma anche con la madre, con la nipote, con il marito (morto dopo dieci soli anni di matrimonio nel 1390), con la sua adorata cagnolina Bon Bon (la ‘topo-cane’ che le scalda i piedi mentre legge e scrive), con gli studiosi dell’Università di Parigi che ne avversano la fama crescente, con i nobili di corte e persino con la regina Isabella. Il tono è questo, metaforico ma anche estremamente concreto fin dall’incipit:
“Figlia cara, sei una giornata calda, sei la patria bianca di questa mia mattina. Dopo colazione io e questa mia mattina siamo salite in camera, ci siamo sedute allo scrittoio e, come sempre, ti abbiamo scritto una lettera; dalla finestra abbiamo guardato il mondo assottigliarsi per strada, e anche noi, spesso, ci sentiamo più sottili. E avvertiamo il freddo arido di quando non nevica”.
Dall’altra parte, la grande Storia dei Valois, della guerra contro gli Inglesi, del folle re Carlo VI che si crede di vetro, di Parigi sempre più percorsa da fremiti di rivolta:
“Parigi sanguina. Certi pomeriggi mi siedo alla finestra per guardare emorragie che arrossano strade e strade che scorrono come vene aperte. Quasi ogni giorno rubano, uccidono, saccheggiano, bruciano, e tutto per questa guerra che dura da quasi cent’anni […] l’orrore di questi giorni. Le grida. I morti per la strada. I profughi dalla Normandia attaccata da Enrico, le continue tasse, nonostante da mesi i mercati siano vuoti; manca cibo e bisogna costruire nuovi mulini”. È un mondo in rapido cambiamento: “La cavalleria è roba da vecchi, ormai. Da vecchie come me”.
Di tutte le relazioni ricostruite in questo romanzo, quella con la figlia è evidentemente la più approfondita, e anche la più tenera: “Quando te ne sei andata ho pensato che s’impara a essere orfani dei genitori ma non dei figli. Quando te ne sei andata ho pianto. Ti ricordi come dicevi da piccola? “Mi hai fatto piangerello.” Sono rimasta disabitata come la nostra casa”.
Nella struttura del libro hanno poi un posto significativo i capitoletti in corsivo e in terza persona che, alternati alle lettere di madre e figlia, aprono come una finestra sulla protagonista, spesso con un passaggio al tempo narrativo presente che dà come l’illusione di un primo piano e della restituzione dei pensieri di Christine in presa diretta. Ad esempio:
“Con lei, i suoi libri moriranno. La rattrista più la morte dei suoi libri che la propria; del resto, è più semplice, più logico, più razionale accettare di morire noi piuttosto che quello che lasciamo. Gli storici come me, pensa Christine, anche se io storica non sono, anche se non ho mai ambito a sentirmi tale, frugano la vagina della memoria. Proprio come i chierici e i teologi frugano la vagina delle ragazze che sentono le voci, cercando prove di verginità”. In questo caso, il linguaggio crudo rende bene il rapporto carnale, di carne e sangue, che ha Christine con le parole e con i libri. Con i tanti libri che ha scritto, dapprima in versi e poi in prosa. E proprio a citazioni dirette dalle sue opere sono dedicate spesso queste “finestre” che si aprono a interrompere il flusso epistolare, vedi la ballata della solitudine, scritta qualche anno dopo la morte improvvisa dell’amato Etienne:
“Sola sono e sola voglio essere, / sola, mi ha il mio dolce amico lasciata; / sola sono, senza compagno né maestro, / sola sono, triste e addolorata, / sola sono, nel languore mesta, sola sono, come nessuno persa, / sola sono, senza più amico rimasta”…
Così, leggendo questi versi, capiamo meglio la sentenza che – nelle pagine davvero toccanti dedicate alla morte della topo-cane Bon Bon – Bortolotti mette in bocca a Christine:
“L’unica cosa a cui servono davvero i libri è distrarci dal dolore, dal tedio o dal nulla. Intrattenere e far dimenticare. E non è poco, se anche i bambini irrequieti o spaventati quando gli si dice “ti racconto una storia” subito si placano”.
Verso la fine del libro, quando una Christine sempre più spaventata dal presente (le lotte per il potere, armagnacchi contro borgognoni e inglesi, rendono Parigi “una città inabitabile”), quella sentenza ha un sapore ancora più amaro:
“A nulla sono valsi i miei sciocchi libri, e forse a nulla valgono i libri, figlia cara. Di certo non è servito Le Livre des fais d’armes et de chevalerie, dove io, tua madre, una femmina che non ha mai preso in mano un’arma e che non sa catturare nemmeno un ratto di fiume, disquisisco di arte militare […] E di certo non è servito il Livre de la Paix. Chi ascolta ormai Dama Prudenza suggerire ai principi di salvaguardare la pace?”.

Eppure Christine ha portato per la prima volta in luce un universo femminile, non solo di scrittrici come lei, che un mondo governato e “spiegato” dagli uomini – anche uomini illustri, come Boccaccio e Jean de Meung, e come i professori della Sorbona – non ha saputo né voluto valorizzare; eppure è stata lei, con La Cité des dames (alla cui costruzione sono dedicate qui molte pagine) a rivendicare una diversa nobiltà, non di sangue ma di spirito, per le sante e le regine, le eroine e le poetesse che nei secoli avevano dato lustro al sesso femminile. Ma questo enorme lavoro ha significato anche rinunce nei confronti dell’altra sua vita (di figlia e di madre, soprattutto dopo che è rimasta vedova):
“Prova uno sgradevole senso di colpa quando sua madre le compare davanti con il grembiule sporco di farina o macchiato da qualche salsa dolciastra a dirle che è pronta la cena. Forse sua madre ha compreso che quello è il suo lavoro e che se rifiutasse di svolgerlo la cena non potrebbe prepararsi. Christine sente, allora, in qualche luogo di sé, occulto ma cogente, di dover fare ammenda per il tempo della scrittura, e di doverlo giustificare a sé e a sua madre vestendolo di necessità pratica. Scrivere e femmina le paiono due terre inconciliabili”: a riprova del fatto che la protagonista ri-creata dall’autrice non è una stereotipata eroina femminista, ma una donna a tutto tondo, che chiede – e anche grazie a questo libro finalmente ottiene – una giusta visibilità.
Nell’ultima lettera, che l’autrice immagina scritta dalla figlia Marie nel 1431, apprendiamo che sua mamma Christine, che l’aveva raggiunta nel monastero di Poissy e per undici anni aveva smesso di scrivere, ha dedicato un’ultima opera alla nuova e grande protagonista della storia di Francia di quegli anni, Giovanna d’Arco, ma è morta prima di vederne la fine sul rogo. In quell’ultima lettera dunque, con cui l’autrice chiude anche il romanzo, quel senso di inutilità sembrerebbe prevalere davanti alla fine di Jeanne:
“Non avrei voluto dirtelo, mamma. L’Università di Parigi ha vinto di nuovo. Nonostante te. E lei. La pira è stata ammucchiata nella piazza di Rouen il 31 luglio, faceva caldo e i boia erano vestiti di rosso. Dio ti ha pregata, sognata e amata abbastanza da prenderti un anno prima, da portarti via dal mondo e da me per non fartela vedere bruciare”.
Eppure, proprio in quella fiamma sembra, misteriosamente, ardere un futuro diverso:
“Per quanto Fortuna abbia girato e girato innumerevoli volte la sua ruota, tutti dicono che la ragazza continui a bruciare. Brucia di nuovo, brucia sempre”.
Impossibile in pochi tratti ricostruire il gran lavoro che Bortolotti ha compiuto perché questa non fosse una semplice biografia, ma, ripeto, una sorta di ricompensa della memoria che – da scrittrice a scrittrice – facesse giustizia dell’insufficiente risalto che questa grande donna, Christine de Pizan, merita nella storia della letteratura europea. E forse, però, ciò che più importa a noi lettori è aver ritrovato la voce di una grande scrittrice, Nicoletta Bortolotti, capace di concepire un libro come una creatura di sangue e di carne, così da diventare lei stessa quello che Christine dice di sentirsi: “La madre di figli che ero stata e la madre di libri che diventavo”.
Il romanzo è stato quest’anno fra i candidati al Premio Strega. Nicoletta Bortolotti sarà ospite a Chiavari per parlare del suo libro, nel corso della rassegna Voci in giardino organizzata dalla Biblioteca della Società Economica, il 14 luglio alle ore 21.
(* Vice presidente della Società Economica e assessore alla Biblioteca)