di GOFFREDO FERETTO *
Da alcuni anni, la casa editrice Lindau sta ripubblicando – spero con buoni risultati – l’opera di uno scrittore italiano che è stato a lungo dimenticato: Carlo Coccioli (1920-2003).
La vita di Coccioli è stata caratterizzata da una incessante, intensissima ricerca spirituale. Abbandonato il cattolicesimo, aderì prima all’ebraismo, poi all’induismo, per approdare infine al buddismo, certamente la meno dogmatica delle tradizioni.
Ha scritto di lui Giancarlo Vigorelli: “Il nostro establishment letterario non gli perdona: 1 – di essere al di fuori e al di sopra dell’ambiente, dei quadri e delle gerarchie della nostra letteratura; 2 – di vivere all’estero, Francia o Messico, e di avervi avuto un gran successo, libri a forte tiratura, traduzione in più lingue; 3 – di avere scritto una quindicina di libri direttamente in francese, oltre a quelli in italiano, e tre in spagnolo, trovando pronta udienza in altre letterature che quasi se lo sono appropriato”.
Certamente non gli ha giovato “quella conturbante problematica religiosa che soggiace nei suoi romanzi e spesso vi esplode in una rissa d’anima e di corpo, senza requie, che va a finire il più delle volte in una ‘danza della morte’”. Per molto tempo, lo sappiamo, la letteratura italiana è stata quasi “allergica” alle tematiche religiose.
Dopo trent’anni dalla prima lettura, recentemente mi sono nuovamente immerso nelle pagine di Davide, un romanzo pubblicato da Rusconi nel 1976, finalista al Premio Campiello.
Il protagonista non è un Davide qualunque, bensì il celebre re biblico da cui doveva discendere il Messia.
Nel romanzo egli è ormai vecchio e sente vicina la fine dei suoi giorni.
Di lui è scritto nel Primo libro dei Re:
“Il re Davide era vecchio e avanzato negli anni e, sebbene lo coprissero, non riusciva a riscaldarsi. I suoi servi gli suggerirono: “Si cerchi per il re, nostro signore, una giovane vergine, che assista il re e lo curi e dorma sul suo seno; così il re, nostro signore, si riscalderà”. Si cercò in tutto il territorio d’Israele una giovane bella e si trovò Abisag, la Sunammita, e la condussero al re. La giovane era straordinariamente bella; essa curava il re e lo serviva, ma il re non si unì a lei”.
Incontriamo, dunque, Davide sdraiato accanto alla bella Abisag il cui corpo lo riscalda (secondo alcuni la notazione che non si unì a lei dipende dal fatto che il re aveva già raggiunto il numero massimo di spose che gli erano consentite: 18).
Nella mente del vecchio scorrono le immagini di tutta la sua vita, da quando, ragazzo, era stato scelto per succedere a Saul fino alla sfida col gigante Golia, all’insanabile contrasto con lo stesso Saul (che pure Davide amava), alle mille battaglie combattute, all’amore per Gionata, alle donne che ha amato, Micol, Abigail, Betsabea, ai nemici che ha sterminato, agli amici che gli sono stati fedeli come il rude Ioab. Ricorda gli atti di crudeltà di cui è stato capace e i gesti di generosità che lo hanno fatto venerare. Intorno a lui, intanto, si intrecciano i complotti per la successione.
Tutta la narrazione, fatta in prima persona dallo stesso Davide, pare un lungo monologo. In realtà, è un dialogo incessante con l’Altissimo, colui che ha segnato tutta la sua vita. Un dialogo che è anche un confronto e spesso uno scontro. Fino alla più amara e blasfema ironia: “E nei tuoi palazzi dell’Assoluto, così atrocemente lontani dalla terra, e talvolta così atrocemente vicini, Tu che cosa facevi: stavi giuocando col Leviatano?”.
Quante volte, nel corso della storia, nel cuore di un ebreo sono risonate le parole: “Tu dov’eri quando il tuo popolo era perseguitato?”.
Un passo, secondo me, è molto significativo. Rievocando il veggente Gad, Davide pensa “… pure lui aveva lottato con un angelo tutta la sua vita: destino degli eletti, qualunque sia la loro missione, del Popolo Eletto: combattere instancabilmente contro imprecisi Personaggi, amore e odio insieme, e non vincere né essere vinti: e ostinarsi a combattere, ostinarsi a vivere… Non è questo, del resto, il destino dell’uomo?”.
Nonostante tutto, il vecchio re, concludendo la propria narrazione, si esprime così: “Amore: forse l’unica parola umana con cui si può avvicinarTI… E… se la morte è soltanto questa cosa semplice e pura… questa, con dentro tutti gli esseri che si sono amati, luce di amore…”.
Nel congedo finale dai lettori, Coccioli dichiara: “… mi conosco troppo bene per non sapere che io finirò in modo definitivo le mie cose letterarie e tutte le altre, perpetuamente imperfette e generatrici di angoscia in quanto tali, il giorno della mia morte, prima no”. Si scusa poi se la sua traduzione del testo biblico è spesso “letterale fino al fanatismo…” per il suo “dispotico bisogno di rimanere fedele al testo…” sacrificando l’eleganza della frase… pur essendo maniaco della bella prosa” in tutte le tre lingue in cui ha scritto.
Per godere di questo romanzo non è certo indispensabile essere laureato in lingue semitiche e camitiche come l’autore, né essere profondo conoscitore della tradizione ebraica come lui, ma almeno un minimo di conoscenza della Bibbia ne rende più gustosa la lettura.
Ultimissima nota: la prosa di Coccioli è chiara, succinta e precisa. Proprio come lui stesso desiderava che fosse.
(* editor e libraio)