di ANTONIO GOZZI e AGOSTINO CONTE
Bisogna essere consapevoli che l’Italia si trova ad un passaggio cruciale della sua storia recente. Per la prima volta con i fondi in arrivo dal Recovery Fund europeo (ben 208 miliardi di euro, in parte a debito e in parte a fondo perduto) non ci sono più alibi relativi a risorse che mancano, ed è finalmente possibile intervenire sui nodi cruciali del Paese cercando di riportarlo, soprattutto in termini di crescita del PIL e di produttività, al livello delle altre migliori nazioni europee: Germania e Francia.
Per capire cosa fare, per individuare le vere priorità, c’è bisogno di uno sguardo lungo. Come sempre, non si comprende il futuro se non si analizza e non si conosce il passato.
Perché l’Italia, pur avendo un buon apparato industriale (il secondo in Europa ed il quinto al mondo per valore delle esportazioni e surplus della bilancia commerciale) è vissuta dalla maggioranza dei nostri connazionali come un Paese debole?
Crediamo che per rispondere a questa domanda si debba ritornare a quando si è rotto irrimediabilmente il rapporto di fiducia/identificazione dei cittadini con i poteri pubblici e con lo Stato. E questo momento è stato il 1992: un anno spartiacque, maledetto per l’Italia. La vicenda di ‘mani pulite’ spezza il sentimento nazionale. Se tutto è malaffare, corruzione dei partiti e della politica, delle imprese e dei dirigenti della Pubblica Amministrazione, allora non si può più credere in nulla; e in particolare, non si può più credere nello Stato e nella Pubblica Amministrazione.
Non è che anche prima le cose fossero facili nel rapporto tra i cittadini e lo Stato. Le culture politiche dominanti in Italia, quella cattolica e quella comunista, per ragioni diverse erano sempre state diffidenti nei confronti dello Stato unitario, visto dai primi come la realizzazione del disegno risorgimentale laico e antipapale, e dagli altri come espressione dell’organizzazione capitalista.
Ma il 1992 è il momento topico che fa saltare i fragili equilibri, che azzera le classi dirigenti che avevano costruito l’Italia repubblicana e democratica e ricostruito l’economia del Paese. Qualcuno pensa che si possa sostituire una classe dirigente selezionata in quaranta anni di storia con un colpo di bacchetta magica. Non è così: ci vogliono decenni per formare e selezionare classi dirigenti. L’unica cosa che succede è l’avvento della demagogia e del populismo, che da quel momento attraversa varie forme e fasi: i cappi sventolati dalla Lega in Parlamento, l’uomo nuovo, l’imprenditore berlusconiano, più tardi la nascita del vaffa e del M5S.
L’infarto del 1992 avviene in un arco di tempo e in una congiuntura internazionale del tutto speciale, altra coincidenza sfortunata.
La riunificazione tedesca, onerosissima, porta la Germania a cercare capitali ovunque. A maggio del 1992 la Bundesbank porta il tasso di sconto sul marco all’8,75%, un livello altissimo per la Germania, e grazie a ciò incomincia a drenare capitali in tutta Europa.
E il mondo, caduto il comunismo nel 1989 e dopo otto anni di politiche di Regan negli Usa, della Thatcher in UK e di Deng Xiaoping in Cina, è un mondo completamente diverso da prima, è diventato difficilissimo.
L’infarto del 1992 getta improvvisamente un dubbio sistemico sulla tenuta del nostro Paese: ed ecco il dramma della svalutazioni della lira a ripetizione e delle prime misure ‘lacrime e sangue’.
Ed ecco lo smantellamento frettoloso del grande mondo delle aziende di Stato, aziende che avevano consentito all’Italia, prima della degenerazione partitocratica, di avere una grande impresa industriale, molta ricerca e sviluppo, buone pratiche organizzative e manageriali. La vicenda Telecom è ancora sotto i nostri occhi.
Nel privato vengono smantellate la grande Ferruzzi, la Montedison, praticamente tutto il settore delle grandi aziende di costruzioni: tutte aziende tra le più grandi del mondo nelle loro specializzazioni.
Smantellamento delle imprese di stato e crisi delle grandi imprese private portano ad uno shock mai visto negli investimenti, meno 25% in pochi anni, e ad un crollo drammatico del PIL.
Ma soprattutto da allora inizia la rincorsa al ribasso di tutti i servizi essenziali alla coesione sociale: sanità, scuola, servizi sociali. E precipita la capacità della Pubblica Amministrazione di fornire i servizi essenziali al sistema imprenditoriale della crescita: decisioni rapide, processi autorizzativi chiari, giustizia civile e amministrativa efficiente, giustizia penale non debordante.
Le leggi vengono varate ma la PA non riesce a scaricarle a terra.
Nel frattempo il ritardo nella rivoluzione telematica e digitale, che negli altri Paesi corre molto più veloce che da noi, mostra un volto ancora più vecchio del nostro sistema.
Il principale problema che abbiamo dinanzi, e su questo bisognerebbe convogliare le risorse del Recovery Fund, è ricostruire in maniera efficace ed efficiente questa macchina dei servizi, e ciò per ricostruire la fiducia di tutti i cittadini, e non ultimi tra essi dei cittadini imprenditori, nei confronti dello Stato. Occorre una rivoluzione culturale che coinvolga innanzitutto i pubblici dipendenti, i quali devono abbandonare i comportamenti autoreferenziali ed avere ben chiaro che i clienti della loro attività sono i cittadini, e che prima di tutto ci deve essere la soddisfazione del cliente. Occorre una fortissima digitalizzazione e probabilmente anche un forte cambio generazionale nei ranghi della PA.
A conti fatti, come si diceva all’inizio, questa è la vera differenza tra noi e la Germania e la Francia: a noi manca uno Stato che possa essere rispettato perché la sua tecnostruttura funziona e infonde fiducia. Senza la ricostituzione del capitale sociale e della fiducia nello Stato, l’Italia non può farcela. Non si può lasciare soltanto sulla schiena del sistema industriale l’onere di partecipare alla battaglia globale per la definizione delle specializzazioni produttive e dei vantaggi comparati. Fare sistema significa esattamente questo, fare in modo che i mondi efficienti contaminino quelli inefficienti, introdurre elementi di flessibilità, premio del merito e dell’impegno anche nell’apparato pubblico.
È possibile che ogni volta che guardiamo strutture a finalità sociali del terzo settore, o comunque gestite da privati, vediamo quasi sempre efficienza, bellezza, pulizia e attenzione al cliente e quando entriamo in strutture pubbliche troppo spesso vediamo il contrario? Siamo la stessa gente: perché non riusciamo in questa impresa?
Occorre che gli imprenditori italiani si occupino di più dei servizi contribuendo, con un coinvolgimento diretto nella gestione o anche solo attraverso un interessamento di tipo civico e un atteggiamento di moral suasion, a migliorarne la qualità e l’efficienza. Occorre che gli imprenditori italiani si occupino di più della cosa pubblica declinando l’idea e la forza di un capitalismo gentile e inclusivo che ha nella sostenibilità la sua stella polare.
È importante avere chiara questa sfida oggi. Il cambiamento di atteggiamento strategico della Germania ha messo fine al meccanismo di austerità/tagli/caduta del PIL/crescita del debito che ha caratterizzato la vicenda italiana degli ultimi venti anni.
Oggi per la prima volta da quel maledetto 1992 abbiamo le munizioni per ricostruire la fiducia degli italiani e per sperare di uscire dalla spirale terribile che ha segnato il declino del Paese. È possibile farcela, ma ci vogliono coraggio e visione.