di MATTEO GERBONI
Ogni sera il bollettino di guerra con il numero di chi si è arreso al cospetto del virus invisibile entra nella carne delle nostre vite con il sibilo, secco, del pugnale. E le squarcia. Accerchiati e disarmati. Ma mai domati. Al diavolo tutto, l’uomo alla fine si è sempre rialzato.
Matteo Bassetti, dal reparto di Malattie Infettive del San Martino, annuisce. “Come va? Combattiamo ogni giorno e non molliamo di un centimetro. Alla fine vinceremo noi”.
Professore, l’ultima novità è rappresentata dal test su siero per la ricerca di anticorpi anti Coronavirus. Che informazioni ci può dare?
“Si tratta di un test immuno-enzimatico su sangue per individuare l’infezione da Covid 19. Il test si propone di individuare una infezione pregressa (dosaggio ig G positivo) una infezione in corso o recente (dosaggio ig M positivo) oppure una infezione in via di risoluzione (ig M e ig G positive). Può dare una fotografia clinica del passato e del presente della persona, ma la sua attendibilità non è certa. Lo voglio dire con chiarezza. Non è assolutamente da escludere che un soggetto abbia contratto il virus e non abbia ancora sviluppato gli anticorpi. Il tempo necessario alla formazione degli anticorpi rappresenta un processo molto soggettivo. Inoltre alcuni centri privati stanno lavorando a vari tipi di test, onestamente non so dire quale sarà il migliore, visto che siamo ancora in una fase sperimentale”.
Consiglia di sottoporsi a questo test?
“Può essere utile per un primo screening, per questo verrà introdotto anche nelle corsie degli ospedali, ma chi si sottopone a questo test deve sapere che il risultato potrebbe variare anche soltanto tra due giorni o una settimana e quindi potrebbe dover essere ripetuto. Lo ritengo uno strumento necessario, invece, tra due o tre mesi per avere un numero più completo delle persone contagiate. Oggi siamo certamente sopra al milione, forse anche vicini ai due milioni. Il virus ha circolato moltissimo e aumentano sempre più i tamponi positivi delle persone asintomatiche”.
Questo cambierebbe i connotati dell’epidemia.
“Io metto insieme i report dei medici di base che ricevono moltissime telefonate da persone con lievi sintomi compatibili con questa infezione, le piccole coorti di chi fa sport collettivi e si scopre che fino al 30 per cento è positivo. Aggiungiamo i dati dei sud-coreani che ci dicono che il 30 per cento dei giovani sotto i 40 anni è risultato positivo: è evidente che almeno al nord abbiamo molti più casi di quelli che finiscono in ospedale”.
Il nuovo test è comparabile al tampone?
“Il tampone, che attualmente viene usato nella fase acuta per intercettare la presenza del virus nel naso e nella gola, è certamente una testimonianza diretta della presenza del virus, ma non mancano anche in questo caso moltissimi falsi negativi. A dimostrazione di come non esista ad oggi nessuno strumento che evidenzi al cento per cento l’insorgenza del virus. Non c’è un test perfetto. Per questo non ha molto significato continuare a fare il tampone per chi ha sintomi respiratori e per di più ha una polmonite che si può facilmente vedere con una lastra ai polmoni. A San Martino curiamo come soggetti affetti da Coronavirus tutti quelli che hanno febbre alta e difficoltà respiratoria, indipendentemente da fatto che siano positivi o meno”.
Continuano ad essere poco chiare le procedure da adottare per chi accusa febbre e tosse.
“Chiariamo una volta per tutte: chi ha solo febbre e tosse deve stare a casa e contattare il proprio medico. La discriminante per andare al pronto soccorso attraverso il 112 è rappresentata dalle difficoltà respiratorie. Chi ha questo tipo di problema deve ricorrere alle cuore ospedaliere. In caso contrario, si corre soltanto il rischio di bloccare il sistema sanitario e privare chi sta veramente male delle cure necessarie. Ieri al pronto soccorso di San Martino c’erano trenta barelle e la maggior dei pazienti doveva stare a casa. Si è rivolta a noi solo per paura”.
Chi si ammala diventa immune? Se lo chiedono in tanti, ma anche su questo punto ci sono versioni discordanti.
“Chi ha contratto il virus ed è guarito (in questo caso occorre che due tamponi, eseguiti a distanza di uno o due giorni, risultino negativi) dovrebbe sviluppare una sorta di vaccino naturale che lo rende immune. Se qualcuno dovesse ammalarsi per la seconda volta sarà un’eccezione e comunque svilupperà sintomi piuttosto blandi”.
Cosa si aspetta dalle prossime settimane?
“La diffusione è stata così capillare che contenere il virus è difficile. Le misure messe in pratica sono draconiane e vanno rispettate, ma non possono avere risultanze nel breve periodo. Io credo che dovremo avere ancora pazienza per una settimana, dieci giorni, per capire se raggiungeremo davvero il fatidico picco, dopodiché dovremo avere quella che viene definita la fase di plateau, in cui arriveranno un certo numero di casi sempre stabili, senza crescite, e poi arriverà la discesa. Sappiamo che questa è un’infezione bruttissima in una porzione limitata della popolazione, sta mettendo seriamente a rischio il nostro sistema sanitario, perché quello che normalmente si spalma in sei mesi, si è concentrato in un mese. È un’onda altissima. Ma con i numeri corretti il tasso di letalità si ridimensiona”.
La fotografia della Liguria?
“Nella nostra regione la mortalità è molto minore rispetto a quella di altre regioni, nonostante abbiamo una popolazione di pazienti anziani e nonostante abbiamo ricevuto casi lombardi di età avanzata. Ma soprattutto quello che è molto importante è che abbiamo più guariti rispetto alle altre regioni, cioè ci sono più persone che vanno a casa perché hanno passato la fase critica dell’infezione”.
La sua ultima proposta di tutelare comunque, ancora di più, le persone anziane.
“Ho proposto che le persone con più di 65 anni o che abbiano delle fragilità, delle malattie di base, non escano più di casa se non al massimo una volta la settimana, ma solo nei casi in cui non si sia in grado di portar loro la spesa a casa”.
Il concetto di immunità di gregge, che ha subito un improvviso calo di popolarità per le improvvide dichiarazioni di Boris Johnson, in realtà è uno strumento che nel lungo periodo avrà un suo ruolo?
“Intanto voglio chiarire di cosa stiamo parlando. Si tratta di un meccanismo che si instaura all’interno di una comunità per cui se la grande maggioranza degli individui è vaccinata, limita la circolazione di un agente infettivo, andando in questo modo a proteggere anche coloro che non possono sottoporsi a vaccinazione, magari per particolari problemi di salute. È un meccanismo fondamentale per ridurre la circolazione e la trasmissione di malattie infettive contagiose. A gioco lungo certamente sarà così. Quando il virus avrà infettato molte persone e la maggior parte avrà sviluppato gli anticorpi la diffusione diventerà più complicata, ma dovranno passare alcuni mesi”.
In Liguria quali farmaci vengono utilizzati per la sperimentazione in questo momento?
“L’idrossiclorochina che è un farmaco che noi abitualmente utilizziamo per la cura della malaria e che si utilizza ancora per la profilassi, il cui nome commerciale è Plaquenil, che ha dimostrato una certa attività nei confronti del virus. Quindi il Remdesivir, un farmaco sviluppato per la cura del virus Ebola che attualmente è in fase sperimentale, prodotto da un’azienda americana, e che è stato utilizzato anche qui in clinica Malattie Infettive al San Martino su due pazienti e saranno altri due quelli che saranno a breve trattati. Infine ci sono una serie di farmaci che non sono in commercio in Italia, tra cui il Favipiravir o Avigan di cui si sta parlando molto negli ultimi giorni: è un farmaco di origine giapponese che ha dimostrato di funzionare nei confronti di altri Coronavirus. Un altro medicinale che stiamo sperimentando è il Tocilizumab, che serve a inibire l’interleuchina-6 e che in qualche modo può colpire il polmone dei pazienti e serve a inibire l’attività infiammatoria del virus”.
L’ultimo decreto aveva rallentato la sperimentazione, si è risolta la querelle tra Regione e sistema sanitario nazionale?
“Sì, l’Avigan arriverà nei prossimi giorni nella farmacia del nostro Policlinico e potrà essere utilizzato sui pazienti già ad inizio della prossima settimana”.
Professore, lei passa la sua giornata in reparto, ma tiene moltissimo anche alla comunicazione attraverso i media. Non a caso il San Martino sta diventato un punto di riferimento nazionale nella cura della malattia.
“Ho pensato sin dall’inizio che il nostro compito dev’essere quello di curare i pazienti che contraggono il virus, ma anche di evitare che molti altri si ammalino, facendo prevenzione. E questo lo si può fare soltanto comunicando e dando più informazioni possibili alla popolazione. Nulla, mi creda, accade per caso. Ho letto una frase molto bella e consolatoria di Paulo Coelho che dovremmo indossare almeno quanto le mascherine: ‘Ci sono momenti in cui i problemi entrano nelle nostre vite e non possiamo fare nulla per evitarli. Ma sono lì per una ragione. Solo quando li supereremo capiremo perché erano lì’. Lo ripeto spesso anche alla mia squadra, un gruppo di professionisti di altissimo profilo, di persone straordinarie che non smetterò mai di ringraziare”.
Come avrebbe fatto papà Dante, che quel reparto a San Martino lo ha costruito molti anni fa. Lui che aveva visto il primo caso di Aids in Italia, così come per la Sars e per lo stafilococco. Un luminare di fama internazionale volato via troppo presto, lasciando in eredità volumi con tirature da mezzo milione di copie. Non a caso quando c’era un allarme o un’emergenza era uno dei primi ad essere chiamato come consulente al Ministero della Sanità a Roma, rilasciando interviste chiare e comprensibili a tutti. Era sempre in prima linea. Buon sangue non mente mai.