di MATTEO GERBONI
È l’una e mezza del mattino, vibra il cellulare. È il numero di un amico medico genovese, in prima linea in un ospedale lombardo. Non lo sentivo da giorni, solo rapidi messaggi che spesso avevano l’effetto di un pugno nello stomaco.
Mi preoccupo. “Tutto bene?”, chiedo subito. “Stanco, ma ho voglia di parlare dieci minuti e chiederti del dirigente dell’Entella”. Grazie, sta meglio. La sua voce è piatta, esausta. “Vedi, in questo momento, molti miei colleghi fanno video o post sui social. Io non sono tecnologico e allora faccio qualche telefonata. Abbiamo bisogno di raccontare, di sentirci dire che non siamo soli. Non lo avrei mai pensato, ma ora mi è venuta voglia di parlare anche a me, che sai sono molto taciturno per carattere”.
Non lo interrompo. “Passo da momenti di esaltazione come questa mattina quando ho dichiarato fuori pericolo una persona della mia età, che non ha neppure cinquant’anni, e aveva avuto un peggioramento improvviso tanto da restare a lungo in terapia intensiva, a poche ore fa quando una persona anziana, amica di papà, mi ha chiesto di salutare la figlia a casa. Ha capito che non uscirà da qui. Ho preso il suo cellulare, mi ha detto di cercare tra i contatti il nome ‘principessa’. Tossiva sino ad un minuto prima, ma quando la figlia ha risposto non voleva perdere neppure un attimo di quella conversazione. Si sono detti trenta volte ciao prima di mettere giù. Poi lui ha iniziato a piangere e mi ha stretto forte la mano. Si mangiava le parole, ma capivo che diceva: ‘È atroce morire da soli’. Non sai quanti parenti dobbiamo fermare, con la forza, davanti alla porta del reparto. Ci insultano, ci maledicono. Vogliono vedere per l’ultima volta un genitore, una moglie o un marito e noi dobbiamo impedirglielo”.
Ogni giorno è una battaglia. Caldo, afa, il fiato corto, il sudore ti cola sul viso che senti scioglierti sotto la maschera FFP3, gli occhiali di plastica, la visiera, la cuffia. “Il paziente va intubato”, “sta desaturando”. Corri, continui a sudare, prepari il farmaco con due paia di guanti che ti limitano i movimenti delle mani, non puoi riposare, bere, mangiare, non puoi fare pipì vestito in quel modo. Devi ripeterti di non toccarti la testa, se ti prude non sfiorati il naso. “Va broncoaspirato, ti avvicini per liberare le vie aeree dalle secrezioni, sei molto vicino e l’ansia di quelle goccioline malefiche aumenta, ma alla fine il paziente respira meglio e sei contento di aver fatto il tuo dovere. Qui in corsia non ci fermiamo mai. Dormiamo quattro o cinque ore, molti di noi qualche sera non vanno neppure a casa. Facciamo turni massacranti, la nostra vita non ha più spazio né tempo. Gli infermieri hanno turni di otto ore, i medici di 12-14 ore, e dopo il turno siamo stremati, ma rientriamo in reparto sempre qualche ora prima del previsto. Il lavoro è duro su pazienti molto complessi, pericolosi. Non possiamo sbagliare una virgola. Eppure non ho mai visto tanto sacrificio, spirito di servizio, disponibilità e capacità di fare gruppo. Tutti fanno tutto. I medici imboccano anche i pazienti se è necessario”.
“Ma non resisteremo a lungo. Servono altri medici, personale infermieristico. Ho chiesto al primario di muoversi per avere qualche rinforzo anche tra gli specializzandi, i volontari. Un paio di medici in pensione si sono fatti avanti per darci una mano. In ospedale hanno riorganizzato gli spazi e le persone: i reparti adibiti ai normali interventi chirurgici sono stati trasformati in terapie intensive, il personale di sala operatoria si è spostato in rianimazione”.
Lo interrompo. “A casa?”. “Per ora bene, vivono tutti dai miei suoceri al piano di sotto. Da un paio di settimane vedo i bambini solo da lontano sul ballatoio o dal poggiolo e credo che questo durerà parecchio. I genitori di mia moglie sono anziani, non possiamo correre rischi. Mi mandano messaggi audio su WhatsApp e facciamo qualche videochiamata, ma dopo loro piangono e io sto male. Mia moglie mi scrive in continuazione, sta soffrendo come un cane”.
“Stai finendo il turno?”, gli chiedo. “No, faccio la notte. E domani mattina esco un paio d’ore. Ma anche a casa me lo sento addosso questo maledetto odore, ed è l’odore della paura e della tensione nervosa, che ti tiene sveglio anche quando sei sfinito e vorresti distenderti e dormire per l’eternità. Mi chiamano, ti lascio, hanno bisogno in corsia. Dai cazzo, vedrai che alla fine questo incubo finirà”.
“Mi raccomando, fai attenzione” e mi scappa anche di dirgli “sei un grande, ti ammiro molto”. “Amo il mio lavoro e quando vedo un paziente fare la borsa per andare a casa, mi convinco che a qualcosa servo anche io in questa sfida per la sopravvivenza”.