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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

I tragici errori dell’Europa sull’industria

Estremismo ideologico, disattenzione o addirittura fastidio verso l’industria e in particolare quella di base e i suoi problemi: se si continua così si muore
Tra le prime 10 aziende del mondo non ce n’è neppure una europea e la popolazione del nostro continente invecchia a ritmi impressionanti
Tra le prime 10 aziende del mondo non ce n’è neppure una europea e la popolazione del nostro continente invecchia a ritmi impressionanti
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di ANTONIO GOZZI

Le elezioni europee si avvicinano e nessuno o quasi parla di contenuti.

Farlo è invece essenziale soprattutto per le questioni che attengono al futuro dell’economia, dell’industria e della competitività dell’Unione Europea.

Partiamo dall’economia. Noi europei siamo i terzi al mondo dopo Usa e Cina, ma destinati a diventare ben presto quarti data l’impetuosa crescita dell’India con il suo 1,4 miliardo di abitanti.

Soffriamo da molto tempo di un deficit di competitività che si è plasticamente manifestato nella minore crescita dell’Europa rispetto alle altre grandi aree economiche del mondo. Negli ultimi 15 anni le performances del PIL del nostro continente sono state di gran lunga inferiori a quelle di Usa e Cina.

Questa crescita debole e lenta, che a ben vedere è il vero elemento che mette in crisi non l’ideale dell’Unione ma i modi e le pratiche con cui è stata portata avanti nel tempo, si è prodotta nonostante alcune condizioni macroeconomiche particolarmente favorevoli e forse irripetibili:

  • Il più grande e ricco mercato del mondo;
  • Tassi di interesse bassissimi, e in certe fasi addirittura negativi, che avrebbero favorito investimenti di tutti i tipi ma in particolare quelli di innovazione e di R&S;
  • Un prezzo dell’energia relativamente basso per un continente senza materie prime, grazie al gas russo e al nucleare francese.

Nonostante queste condizioni al contorno, di sicuro vantaggiose, evidentemente qualcosa non ha funzionato.

Penso, e l’ho detto e scritto più volte, che questa debolezza relativa sia la conseguenza di una degenerazione culturale (la presunzione di pensare che siamo “i più bravi di tutti”, che possiamo e dobbiamo insegnare a tutti come si fa e quindi ‘regole, regole, regole’) e dal declino industriale e demografico.

Tra le prime 10 aziende del mondo non ce n’è neppure una europea e la popolazione del nostro continente invecchia a ritmi impressionanti, con tutto ciò che ne consegue in termini economici e sociali.

Bisogna essere consapevoli che la situazione che si è creata e che stiamo vivendo rischia di spazzare definitivamente l’Europa e i suoi sogni di gloria dal tavolo dei grandi, relegandola al ruolo di attore minore nelle dinamiche mondiali.

Rispetto a questo quadro, che mi sembra difficilmente contestabile, continuo a sentire una retorica europeista che mi pare francamente insopportabile. Tifare per l’Europa non significa non vedere i gravi errori compiuti negli ultimi anni, ma al contrario cercare di identificarli e di porvi rimedio.

Per il mestiere che faccio e per le competenze che ho, voglio concentrarmi sul tema dell’industria. L’atteggiamento europeo e gli errori compiuti sono l’esempio di ciò che va radicalmente cambiato se si vuole evitare un rovinoso declino.

L’origine di questi errori e di un’impostazione completamente sbagliata, che rischia di compromettere gravemente la tenuta dell’industria europea, la sua competitività e in definitiva il suo futuro sta a mio giudizio, e anche questo l’ho detto e scritto molte volte, nell’intrecciarsi pericoloso e negativo di tre forze concomitanti:

  • Un estremismo ambientalista che ha trasformato la transizione energetica in una battaglia anti-impresa, ingaggiata anche dai reduci sconfitti dell’anticapitalismo, e che rifiuta ogni approccio pragmatico e razionale declinando solo obiettivi di decarbonizzazione sempre più astratti e irraggiungibili;
  • Un estremismo mercatista e globalista che pensa che tutto possa essere comprato ovunque, che non vi debba essere alcuna barriera e/o protezione delle industrie nazionali e che non tiene in nessuna considerazione chi (settori produttivi e lavoratori) ha già pagato duramente i processi di globalizzazione;
  • L’ideologia del primato della finanza sull’industria, una finanza che ha fatto della transizione green un’ennesima occasione di business, trasformando anche le azioni di tutela ambientale e di decarbonizzazione in nuovi business finanziari: si veda ad esempio il mercato europeo delle CO2 che le industrie devono comprare per continuare a produrre, il cui prezzo è fortemente influenzato dalla speculazione dei fondi di investimento e banche sempre alla ricerca di nuove asset class.

Faccio un elenco, certamente non esaustivo, di questioni mal affrontate o di veri e propri passi falsi causati dall’intreccio dell’estremismo e ideologismo di cui sopra.

1 – Vi è innanzitutto la storia dell’industria automobilistica europea travolta dalla vicenda del diesel gate e dal rifiuto della neutralità tecnologica che ha spinto solo sull’elettrico e non su altre tecnologie, come i combustibili sintetici e i biocarburanti, abbandonando il primato che l’Europa aveva sui motori endotermici. La contraddizione è rappresentata dal fatto che la tecnologia ha raggiunto un livello tale da consentire agli autoveicoli con motori endotermici di nuova generazione di avere un bassissimo impatto ambientale vicino a quello delle auto elettriche. Il problema è però che un’auto elettrica contiene dieci/dodici volte meno di componenti meccanici e ciò mette in crisi profonda tutto l’indotto dell’industria automobilistica europea.

2 – Il green deal e il così detto ‘FIT for 55’. Con questa locuzione si intende il pacchetto di norme presentato dalla Commissione europea nel 2021 e che fa parte del piano europeo per contrastare il cambiamento climatico. Come è noto l’obiettivo finale del green deal è il raggiungimento della neutralità carbonica sul territorio europeo entro il 2050. Per l’industria europea, specie quella di base (acciaio, chimica, carta, ceramica, cemento, vetro ecc.) gli obiettivi sono estremamente sfidanti e non vi è alcun rapporto tra la dimensione degli investimenti necessari per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione fissati dal piano europeo e le risorse pubbliche messe a disposizione per sostenere i settori industriali coinvolti. È chiaro che questi settori industriali non possono fare da soli, pena comprometterne la competitività. In particolare manca un Fondo europeo per aiutare la decarbonizzazione di questi settori definiti in gergo hard to abate.

3 – Il meccanismo dell’ETS (Emission Trading System) che è quello in base al quale le industrie emittenti CO2, in attesa di arrivare per via tecnologica alla completa decarbonizzazione, devono acquistare quote per poter produrre, si è trasformato in un mercato in cui la speculazione finanziaria di fondi di investimento e banche d’affari spesso domina. Il paradosso è che gli industriali per produrre sono sottoposti agli effetti della speculazione finanziaria.

4 – Gli effetti collaterali del CIBAM, il meccanismo che pone dazi alle importazioni da paesi che non aderiscono al protocollo di Kyoto, il quale, oltre ad un’estrema complessità applicativa che mette in crisi le aziende importatrici caricate di adempimenti cervellotici, ha come effetto la scomparsa a partire dal 2030 delle quote gratuite; il che per la siderurgia significa la chiusura di tutti gli altoforni europei e quindi l’impossibilità di produrre in Europa l’acciaio da profondo stampaggio, che è quello che serve per le carrozzerie della auto. In questo modo, coscientemente o incoscientemente, si è dato un altro durissimo colpo al settore dell’automotive europeo che dipenderà strategicamente, per l’importazione di questo tipo di acciaio, da aree del mondo concorrenti con l’Europa nella produzione di auto.

5 – Il rifiuto europeo di firmare con gli USA un accordo relativo alla costruzione di un’area occidentale (Usa, Canada, Mexico, UE, Giappone e Australia) di libero scambio per l’acciaio e l’alluminio. Tale proposta, formulata dall’Amministrazione Biden per sanare l’esistenza di un dazio all’ingresso per questi due prodotti introdotto a suo tempo dall’Amministrazione Trump, è stata rifiutata dall’UE perché essa voleva mantenere questo dazio nei confronti dei Paesi che praticano unfair trade come la Cina.

6 – Il rifiuto della Commissione Europea, al di là dei roboanti proclami sull’economia circolare, di definire ‘materia prima strategica’ il rottame di ferro che alimenta le acciaierie elettriche (decarbonizzate), impedendone così l’esportazione fuori dai confini dell’UE verso Paesi che per diverse ragioni fanno concorrenza sleale alla siderurgia europea.

E l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

Errori, estremismo ideologico, disattenzione o addirittura fastidio verso l’industria e in particolare quella di base e i suoi problemi. Se si continua così si muore.

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La sinistra continentale invece non riesce a liberarsi dell’estremismo del green deal