Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.
di MATTEO MUZIO *
Nelle prime settimane dopo la sua elezione, le maggiori testate del mondo parlavano di vittoria schiacciante per Donald Trump che faceva nuovamente “irruzione” alla Casa Bianca. Anche alle Camere si parlava genericamente di “doppia maggioranza” e di “governo unificato”. A ben vedere però, questi numeri di cui godrà il tycoon saranno molto più scarni. Al Senato, è vero, potrà godere di 53 seggi su 100, anche se la salute del settantreenne Jim Justice, fresco di elezione dal West Virginia, lascia qualche preoccupazione per la sua effettiva partecipazione ai lavori. Nulla di irreparabile però: pur con due senatrici moderate come Susan Collins del Maine e Lisa Murkowski dell’Alaska, la maggioranza repubblicana è sufficiente per approvare tutte le nomine meno controverse.
Diversa e molto, la situazione alla Camera. Nonostante la tranquillità con cui il leader repubblicano alla Camera Mike Johnson ha minimizzato la cosa, i numeri alla Camera sono più ridotti rispetto a due anni fa: nel 2022 erano stati eletti 222 repubblicani e 213 democratici, mentre lo scorso novembre il rapporto era di 220 a 215. Numeri ancora più stretti, se si pensa che il deputato della Florida Matt Gaetz si è dimesso lo scorso novembre in seguito ad alcuni scandali sessuali che lo riguardano personalmente. Il sostituto non arriverà prima del 1° aprile, giorno in cui si terranno le elezioni suppletive.
Che le cose saranno difficili, poi, si è visto il 3 gennaio: soltanto l’intervento di Donald Trump per via telefonica ha consentito che Johnson venisse rieletto Speaker della Camera, convincendo per via telefonica due deputati conservatori, Ralph Norman del South Carolina e Keith Self del Texas, che inizialmente erano riottosi a sostenere un candidato che loro vedevano come “eccessivamente favorevole” al compromesso con i democratici. E nonostante questo Thomas Massie del Kentucky ha votato comunque contro dicendo: “Possono anche tagliarmi le dita una per una e voterò comunque contro”. Quindi, ecco fatto il conto: 218 voti per Johnson e 215 per il leader dei dem Hakeem Jeffries. Tutto a posto? No. Perché un gruppo di deputati della corrente iperliberista del cosiddetto Freedom Caucus ha comunque risposto alla chiama in consistente e ostentato ritardo. Uno di questi, Chip Roy del Texas, già ha fatto sapere che si opporrà alla “spesa pubblica fuori controllo”. E con lui un totale di nove deputati. Gli stessi che sono necessari, secondo le regole interne del partito repubblicano, a lanciare una mozione di sfiducia a Johnson.
Già nell’ottobre 2023 il predecessore di Johnson Kevin McCarthy era stato cacciato da una mozione congiunta di otto dissidenti che hanno ricevuto l’appoggio dei democratici. E anche stavolta si potrebbe riprodurre una situazione simile anche c’è una variabile che già abbiamo visto in azione: Trump potrebbe intervenire direttamente, se fosse necessario, anche se non potrà accadere tutte le volte che ci sarà qualche dissenso in un gruppo che negli ultimi due anni è brillato per litigiosità.
Quindi le analisi che dicevano che Trump nei primi giorni andrà avanti ad approvare decreti come “un rullo compressore” lasciano il tempo che trovano. Anche perché, secondo le regole dell’altro ramo del Congresso, al Senato sono necessari sessanta voti per evitare l’ostruzionismo dei dem. Una situazione dove si prospettano dunque molti mal di pancia per la nuova amministrazione, molto più rispetto al 2017 dove pure pesava l’inesperienza di un presidente che non aveva mai occupato cariche pubbliche prima di allora. Per questo Trump ha espresso la preferenza per un disegno di legge omnibus che comprenda il budget per l’anno in corso (al momento il governo federale ha fondi solo per funzionare fino al 14 marzo), ma anche una riforma dell’immigrazione e delle politiche energetiche, da votare entro metà aprile, tramite la procedura della cosiddetta “riconciliazione”, un cavillo parlamentare che consente l’approvazione di un singolo provvedimento annuo tramite questa modalità emergenziale. In sintesi: questi numeri rispecchiano un risultato che alla fine rispecchia più la sconfitta del partito democratico anziché una convincente vittoria dei repubblicani di matrice trumpista. E questo causerà frustrazione nell’entourage del tycoon e di sicuro qualcuno, forse proprio il suo alleato Elon Musk, ne farà le spese.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)