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Giovedì 23 ottobre 2025 - Numero 397

I Maigret con Gino Cervi resistono alla prova del tempo: una rilettura degli sceneggiati televisivi 

‘Le inchieste del commissario Maigret’ sono sedici sceneggiati in trentacinque puntate realizzati dal 1964 al 1972, cui arrise un enorme successo di pubblico: 18 milioni di spettatori
Gino Cervi nei panni dell'ispettore Maigret, tratto dai romanzi di Simenon
Gino Cervi nei panni dell'ispettore Maigret, tratto dai romanzi di Simenon
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di ORESTE DE FORNARI *

Questa estate sono usciti due libri interessanti su Simenon, l’ampio, enciclopedico L’affaire Simenon .Tutto quello che dovreste sapere sul  padre di Maigret e sulla sua opera sterminata, di Tiziano Fratus (Solferino), che contiene fra l’altro i riassunti di cento romanzi (ma non somiglia a un Bignami), e la riedizione dell’agile volumetto Simenon, l’uomo nudo di Gianni Da Campo, Claudio G. Fava e Goffredo Fofi (L’ancora).

È stato un pretesto per vedere o rivedere almeno una parte degli sceneggiati televisivi tratti da Simenon, prodotti dalla Rai negli anni Sessanta, ora disponibili in rete. Gli anni Sessanta sono stati, come noto, l’età dell’oro della Rai di Ettore Bernabei, paragonabile allo studio system di Hollywood, e in cui un ruolo strategico era svolto dal romanzo sceneggiato, che ben rappresenta la missione dell’educare divertendo. È all’interno di questo genere che si collocano Le inchieste del commissario Maigret, sedici sceneggiati in trentacinque puntate realizzati dal 1964 al 1972, cui arrise un enorme successo di pubblico (18 milioni di spettatori).

Le ragioni sono note. I romanzi, pubblicati in Italia da Mondadori, avevano un’ampia diffusione già da prima della guerra. E il protagonista, Gino Cervi, oltre a possedere un perfetto phisique du role, godeva della popolarità acquisita nei panni di Peppone, il sindaco comunista, storico avversario di don Camillo, che nel ruolo del commissario sarebbe risultato meno macchiettistico, più credibile. Poi la qualità degli adattamenti. Fra gli sceneggiatori Diego Fabbri e Romildo Craveri, regia di Mario Landi, delegato alla produzione Andrea Camilleri. L’impianto teatrale, tipico degli sceneggiati da studio di quei tempi, e la scarsità di riprese in esterni, non pesavano. Tra l’altro viene sempre precisato in quale stagione ci troviamo, per esempio quando Maigret si protegge dai primi freddi inaugurando il cappotto pesante che la moglie ha appena tirato fuori dall’armadio. E come dimenticare il raffreddore che colpisce l’ispettore Lucas (Mario Maranzana) nel corso dei suoi appostamenti. Il nipote di Maigret poi, Jerome (Gino Pernice) sembra perennemente raffreddato, vive con lo zio, ma fa bene il suo lavoro, alla fine di Maigret e l’ispettore sfortunato viene ferito in una sparatoria e nell’epilogo lo vediamo a tavola con lo zio che gli taglia il prosciutto. La gastronomia appunto è un motivo ricorrente. Si sa che questo Maigret televisivo è una buona forchetta, e apprezza i manicaretti che gli prepara la moglie (Andreina Pagnani).

Fondamentale il microcosmo in cui si svolgono le inchieste, gli uffici della polizia al Quai d’Orsay, in cui lavorano gli ispettori alle dipendenze del commissario. Bastano poche puntate per renderceli familiari. Ma ci sono anche i superiori, uno soprattutto, l’autorevole elegantissimo Franco Volpi, che ha sempre l’aria di essere atteso a un ricevimento. Volpi era stato, tra l’altro, il chirurgo incapace della Cittadella, che suscita l’indignazione del dottor Manson (Alberto Lupo), e l’ufficiale sabaudo dei caroselli China Martini in coppia con Ernesto Calindri. Un altro superiore di Maigret, ancora più autorevole, è Mario Feliciani, già noto al pubblico italiano come Napoleone III in Ottocento, lo ritroveremo anni dopo a presiedere un tribunale militare in Uomini contro di Francesco Rosi. A proposito di microcosmi e di unità di luogo, ci sono due episodi in cui Maigret conduce le indagini dal letto di una pensione fuori Parigi o dal letto di casa sua, sotto lo sguardo premuroso della moglie. Se cede facilmente ai piaceri della tavola e non rinuncia alla sua pipa neanche da malato, è indifferente alle tentazioni della carne. Quando una fille de joie residente all’hotel Pigalle, abbassa una spallina del reggiseno con aria invitante “Commissario,no?” Maigret si limita a confermare “No” come una cosa che va da sé (Montalbano, lontano erede di Maigret tramite Camilleri, sarà meno virtuoso e si concederà un adulterio balneare nella Vampa di agosto).

Tra i criminali o i semplici indiziati, almeno uno è memorabile, il Radek di Una vita in gioco, un viveur megalomane che sfida l’intelligenza del commissario e finisce sulla ghigliottina. Maigret, compassionevole, lo va a trovare nella sua cella alla vigilia dell’ esecuzione: “Anche un grande artista quando si preoccupa troppo degli effetti appare guitto”. L’attore è Gian Maria Volontè, futuro interprete dei nevrastenici antieroi di Elio Petri. Da ricordare il goldoniano Cesco Baseggio, informatore della polizia coinvolto in passato in una storia di falsari, che saprà rendersi utile quando Maigret viene sospeso dal servizio a seguito di accuse infondate (Maigret sotto inchiesta).

Nell’Affare Picpus, c’è anche il grande Sergio Tofano, nel ruolo di un finto pazzo, succube dalla moglie Evi Maltagliati. Ci penserà Franco Volpi a farla confessare e Lucas a portarla via urlante (“Io vi odio commissario Maigret”). La Maltagliati l’avevamo vista nei panni dell’imperatrice di Russia, mostrare una certa pietà per il ribelle Pugaciov (Amedeo Nazzari), cui risparmia i tormenti prima della decapitazione, nella Figlia del capitano di Puskin, regia di Leonardo Cortese (l’anno è lo stesso, il 1965).

Indimenticabile Anna Miserocchi (la grande doppiatrice), perfetta nel ruolo di vedova della vittima (verrà fuori che è lei l’assassina), che nell’Ombra cinese si produce in una magistrale scena isterica. Maigret la spedisce alla neuro per evitarle la ghigliottina. Da ricordare in Maigret a Pigalle (un film a colori, destinato alle sale) un’altra anziana che confessa di avere ucciso per il timore di perdere il suo uomo, la russa Lila Kedrova, nota ai cinefili come contessa polacca residente a Berlino Est nel Sipario strappato di Hitchcock. Un’altra attrice che porta con sé la memoria del cinema Giovanna Galletti, la collaborazionista della Gestapo di Roma città aperta (Maigret e il ladro solitario). Tra le figure minori, un’albergatrice che accudisce Maigret malato nel Pazzo di Bergerac, suscitando la gelosia della moglie: è Angela Luce, che abbiamo conosciuto come ragazza allegra in un Totò (Signori si nasce), poi è stata Peronella nel Decameron di Pasolini, molti anni dopo l’abbiamo ritrovata a Napoli nell’Amore molesto di Martone. Oreste Lionello è un grafologo che lavora per la polizia, un’altra volta è il medico legale.

A ricordarci che non siamo in America qualche piccola allusione come quando Maigret rimprovera un ispettore che indossa una fondina ascellare “secondo il sistema americano”. Sparatorie poche e poco memorabili, come quella ai mercati generali in cui Maigret viene ferito. La sola violenza (verbale) che il commissario si consente in Maigret e i diamanti è di apostrofare un delinquente: “Lei è un mascalzone. Vede, ci sono mascalzoni e mascalzonima a qualcuno posso anche stringere la mano, ma lei è della specie peggiore, di quelli che a guardarli in faccia viene voglia di fare a pugni o di sputare” e non avrà più riguardi per la sua complice.

Perfetto equilibrio tra l’aria di Parigi e il clima dell’Italia televisiva nella sigla di coda affidata per qualche tempo a Luigi Tenco “Un giorno dopo l’altro la vita se ne va”: siamo alla vigilia di quel Sanremo 1967 in cui Tenco si è tolto la vita.

Ancora un’osservazione, seppure il merito in questo caso sia più di Simenon che degli adattamenti. Dei molti episodi uno dei più originali è Non si uccidono i poveri diavoli. La vittima in questo caso è un impiegato che ha vinto una grossa somma alla lotteria e che ha tenuto nascosta la notizia ai colleghi e alla moglie continuando a uscire di casa tutti i giorni per andare in ufficio. In realtà si era costruita una seconda vita, in tutto simile alla prima, completa di amante e di hobby, l’ornitologia, aveva una collezione di gabbie con gli uccellini. Sotto la maschera del giallo l’ironia verso ogni velleitaria fuga da se stessi, l’illusione di essere diversi da quel che si  è. Un Simenon non lontano da Pirandello.

Doveroso il confronto con i Maigret autoctoni, prodotti a fine Novecento e interpretati da Bruno Cremer. Diciamo subito che si respira un’altr’aria, aria di cinema. Colpisce ogni volta la precisione da miniaturista, con cui è descritto l’ambiente. Consistenza dei corpi, vestiti, oggetti, mobili, ma anche verità di atmosfere e di sentimenti, cupidigia(molta), invidia, rancori, concupiscenza (non troppa), avarizia, ipocrisia. Vizi privati che Maigret fa saltare fuori appena rovistando un po’come quando trova una pistola nell’immondizia o una calza da donna nel tubo del lavandino. A proposito di vecchie glorie, questi Maigret ci hanno regalato l’emozione di rivedere due attrici vicine alla Nouvelle Vague, prematuramente scomparse ,la truffautiana Marie Dubois (Tirez  sur le pianiste), e Maria Schneider (Ultimo tango a Parigi).

Colgo infine l’occasione per segnalare uno dei “romanzi duri” di Simenon (cioè quelli senza Maigret) che non è stato mai adattato per la tv. E’ Corte di assise, storia di un giovinastro che vive alle spalle di una signora matura. Quando lei viene uccisa tutti i sospetti cadono sul gigolo, che non riesce a dimostrare la sua estraneità al delitto. Finirà per confessare, seppure innocente, il furto dei gioielli, rassegnandosi alla condanna a vent’anni di lavori forzati, pur di scampare alla ghigliottina. Un esempio tra i tanti del chiaroscuro etico estetico di Simenon.

Per i fedelissimi del commissario, ricordo che è appena uscita per Adelphi una breve raccolta di racconti di Simenon apparsi nel 1930, sulle imprese dell’antenato diretto di Maigret, l’implacabile giudice Forget, intitolata I tredici colpevoli. Buona lettura.

(* giornalista, critico cinematografico e autore televisivo)

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