di DANILO SANGUINETI
In Sicilia, stando alla vulgata di Garinei & Giovannini, erano tre, accoppiati ad altrettanti briganti sulla strada longa longa di Girgenti. I somari nostrani sono due e sono, anzi erano, assieme a molti altri della loro specie, di proprietà di una coppia di pugnaci imprenditori tornati alla campagna dopo un itinerario articolato quanto ragionato volto al recupero di una dimensione naturale e di una vita più a misura d’uomo.
Soprattutto Stefania Stortoni ed Enrico Rossi, che hanno preparato e assemblato, migliorando e rinnovando le proprietà di famiglia, con caparbio entusiasmo l’azienda agricola poi raddoppiata dall’agriturismo, dei malfattori non hanno alcuna caratteristica. All’opposto hanno fatto del loro meglio, e sono quindi da considerarsi dei bene-fattori, per vivificare un territorio, quello dell’Alta Val Graveglia, tra i più colpiti dalla grave crisi che attanaglia l’entroterra ligure e che sino alla sberla del Covid si paventava inarrestabile. Occorreva coraggio, c’era da tornare alla terra: i due vissuti signori di Genova l’hanno preso alla lettera.
“Enrico, il mio compagno, almeno qui, a Botasi, frazione (separata assai ndr) di Né, all’ombra del Monte Zatta, aveva le sue radici, invece io Stefania, sono nata in riva al mare, di cultura cittadina per formazione e che per tanto tempo ho operato nel commercio. Venire a vivere al numero 105 di Botasi, in apertissima campagna rilevare un’azienda prima solo agricola e farla diventare agrituristica è stato un cambiamento di prospettiva mica da ridere”.
Una svolta a 180 gradi che si è completata nel 2014 o meglio che ha visto aprirsi un altro capitolo della loro vita, un libro che ha avuto altri passaggi avventurosi e che pare tutt’altro che completato. “Io sono il lato commerciale del duo, il vero avventuriero è il signor Rossi”. Stefania, che di cognome fa Stortoni, passa il testimone con una sincronia che rivela l’affiatamento della coppia al Signore degli Asini, Enrico. Che nel raccontare la storia dell’agriturismo ‘I Due Somari’ non può esimersi dal riassumere un’esistenza (va verso i sessant’anni) in direzione ostinata e contraria.
“Qui a Botasi, a pochi metri da dove sorge l’azienda, sono nato, ma vi sono tornato solo da grandicello. In mezzo ci sono stati decenni nei quali ho fatto diversi mestieri e affrontato diverse esperienze. Ho studiato agraria in un periodo nel quale chi sceglieva un simile indirizzo veniva guardato nella migliore delle ipotesi con sospetto e nella peggiore con disprezzo. Adesso è di moda pensare verde, in quegli anni rischiavi di passare per sfigato e basta. Sono andato in Toscana ed ho allevato gli asini. E stando con loro giorno e notte ho imparato ad apprezzarli. Ecco il perché del nome dell’agriturismo. Come loro siamo lavoratori tenaci e silenziosi, duri alle imposizioni altrui. Detto per inciso: il Somaro non si piega, probabilmente per questo motivo gode di cattiva fama rispetto ad altri animali più pucciosi”.
A ben vedere la storia di Enrico Rossi è una storia da film. “Ho conseguito la abilitazione per gestire una struttura ricettiva nell’ambito di una azienda agricola nel 1983 quando non si sapeva neanche cos’era, anzi non c’era proprio la parola”. Oggi è chic parlarne, allora sembrava un salto nel buio. Una tipica oscillazione del pendolo sociale. “Nel mio girovagare sono capitato in Toscana, ho capito che questa modello di accoglienza turistica poteva essere importata anche da queste parti. Per cominciare ho affittato del terreno e mi sono messo a gestire cavalli. Equitazione nel verde, credo di aver messo a cavallo mezzo Tigullio. Dopodiché ho deciso di seguire un corso da maniscalco. Appreso il mestiere per un po’ di anni, ho girato l’Italia. Infine, passati i cinquant’anni ho realizzato che era il momento propizio per il mio vecchio progetto dell’agriturismo. Una idea che mi frullava in testa da decenni. Mi sono detto che se non mi decidevo poi sarebbe stato troppo tardi. Sono tornato in Val Graveglia, ho ripreso la azienda agricola di famiglia e sono partito”.
C’era tanto da fare: in nove anni tanto è stato fatto, affrontando diverse sfide, quasi tutte vinte grazie al coraggio di Stefania ed Enrico. “Senza dubbio senza di lei non ce l’avrei fatta. Si è adattata alla grande a una esistenza diversa, diciamo che ha rispolverato le sue radici contadine. In questi mesi abbiamo dovuto rallentare perché si è sottoposta a un paio di piccoli interventi ma ora siamo pronti per ripartire. Unici compagni persi per strada gli asini dell’allevamento. Una disavventura non meritata, abbiamo pagato le sciocchezze di altri”.
Il racconto della sparizione dei somari stringe il cuore. “Sono animali intelligentissimi, credo i più evoluti tra gli erbivori. Purtroppo non potevano difendersi dai branchi di lupi calati dallo Zatta e dalle altre montagne dell’Appennino”. Enrico evita i particolari grand guignol eppure c’è egualmente da rabbrividire. “L’abbandono delle coltivazioni, la mancata pulizia dei boschi ed un uso, che non esito a definire scriteriato, dell’animalismo a ogni costo, ha fatto sì che questi predatori prendessero il sopravvento. Sono calati a valle e in alcuni attacchi mirati hanno divorato i miei asinelli. Che erano tenuti allo stato semibrado come era logico fare”.
Spariti i Somari non sono svaniti i guai, anzi. “La battaglia è ormai quotidiana. Tanto per mantenere aperta la zona ricettiva dell’azienda, tanto per mandare avanti la parte produttiva di essa. Mi spiego meglio: per quanto riguarda l’agriturismo è innegabile che i due anni di pandemia, chiusure e limitazioni varie, ci abbiano fatto bene. Molti sono scappati dalla città ed hanno riscoperto se non addirittura riaperto le seconde case. Più gente da queste parti, più lavoro per noi. Un’ondata che mi pare stia già rifluendo. L’estate scorsa e, direi, anche l’attuale hanno visto la gente riprendere le antiche brutte abitudini. Potremmo scivolare nel disinteresse se non si inventano qualcosa di concreto”.
Poi ci sono spine e nodi anche per quanto riguarda le coltivazioni e la vendita dei prodotti. “Il lavoro è raddoppiato. Intanto perché bisogna fare i conti con un rincaro generalizzato, i costi di base che lievitano. Se alziamo troppo i prezzi ci autopenalizziamo. E poi ci sono gli altri attacchi”.
È diventato tutto molto difficile perché in valle qualunque animale arriva fa danno, impossibile negarlo. E non sto pensando ai soli famigerati cinghiali dei quali siamo pure infestati. Caprioli, cervi, volpi, gazze, merli. I primi sono belli da vedere ma sono la peste per certe nostre colture. Direi che per ogni tipo di ortaggio o frutto c’è la specie dannosa che imperversa. Per non parlare dell’istrice: un roditore formidabile che non si ferma di fronte a nessun recinto o barriera che si possa alzare”.
La perdita degli asini è un dolore ancora vivo. “Andavano per i prati da qui fino alle pendici dello Zatta. In pratica si muovevano in un’area vastissima, decine di ettari di terreno che grazie al loro passaggio venivano battuti e quindi in qualche maniera puliti. Ho dovuto gettare la spugna dopo l’ultimo assalto dei lupi. Già nel 2005 mi avevano procurato un danno indifferente. Ora nel giro di un mese e mezzo hanno sbranato tre puledri. Non si poteva continuare”. Abbiamo toccato un nervo scoperto. Gli animalisti oltranzisti sono sul piede di guerra (non con il fucile puntato perché scatenerebbe il conflitto di interessi). “Io non posso passare per eco-insensibile. Solo vorrei che della faccenda si occupasse chi capisce, chi conosce il territorio e le sue varie problematiche. In sintesi niente soluzioni paracadutate dall’alto. Sediamo attorno a un tavolo e discutiamo. Quando invece sento discorsi e vedo disposizioni partoriti da qualcuno dietro una scrivania vado ai matti”.
Lo stesso vale per la diatriba sul Parco della Valle. “Io ero tra quelli del comitato dei contrari. Perché ha pochissimo senso una delimitazione di una zona anche qui con criteri decisi da burocrati e con confini tracciati sulle mappe. Qui come in altre parti d’Italia Tutto è Parco. E esiste la possibilità di fare tantissimo, basta volerlo. Io sono anche presidente della Pro Loco siamo impegnatissimi per fare in modo che le Miniere di Gambatesa riaprono, stiamo bersagliando la regione di istanze, speriamo che ci ascoltino”. Un grande ottimista Enrico Rossi. Forse aiutato dal fatto che ogni giorno gusta in anteprima alcune delle leccornie che sforna la sua azienda agricola. Con un reparto zootecnico da primato: conigli, papere, capre. Dalla dispensa escono olio, marmellate, uova fresche, farina. Dalla cucina primi da paura (tortelloni, cannelloni, taglierini di castagna locale al pesto) e secondi da urlo (asado, bollito di cabannina, stufati, arrosti, melanzane alla parmigiana, trippe, cima, testaieu) e poi formaggi, salumi, frutta.
Ecco perché I due Somari hanno mantenuto intatto la loro serendipity, la capacità di guardare con disincanto e al contempo irriducibile ottimismo a cosa verrà. Il pensiero va al tormentone scolastico, “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti”, attacco di Davanti San Guido. Il finale sembra perfetto per Enrico e Stefania: “E di polledri una leggiadra schiera/Annitrendo correa lieta al rumore. Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo/Rosso e turchino, non si scomodò/Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo/E a brucar serio e lento seguitò”. Meglio con i somari filosofi piuttosto che tra i puledri che scalpitano dietro allo sferragliare del quotidiano.