di MARCO ARVATI *
Nel 1952 si scontrarono alle primarie repubblicane due personaggi che non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro: Dwight D. Eisenhower e Robert Taft, figlio di William, ventisettesimo Presidente degli Stati Uniti. A scontrarsi erano anche due linee profondamente differenti in politica estera: da un lato il generale che aveva liberato l’Europa e che vedeva nel Vecchio Continente un alleato strategico contro l’Unione Sovietica, grande sostenitore della Nato e degli aiuti economici del piano Marshall; dall’altro Taft era senatore dell’Ohio, scettico del sistema di alleanze internazionali e sostenitore di un cambio di rotta in cui sarebbero stati gli interessi asiatici e lo scontro con l’appena nata Cina comunista a farla da padrone.
Bisogna partire da qui, per questo dissidio nella politica estera Repubblicana che non è nato con la presidenza di Donald Trump, ma che con quest’ultimo è diventata per la prima volta maggioranza. L’abbandono delle alleanze internazionali e dell’Europa a loro stesse è sia di Taft, che non diventò mai presidente, né di altri personaggi secondari nel partito, come il commentatore ultraconservatore Pat Buchanan o il deputato del Texas Ron Paul, di idee anarco-liberiste. Trump inscrive quindi le sue idee in un mondo già esistente, che viveva sottotraccia in un partito che faceva dell’assertività dell’America nel mondo, con una presenza egemonica in tutti i quadri internazionali, la base del proprio pensiero, determinando l’emersione di quel sentimento definibile “America First”, che ha generato una politica estera unilaterale e amorale, basata su un approccio transazionale, senza curarsi minimamente dei valori, che siano più vicini ai Repubblicani, come il concetto di esportazione della democrazia, o ai Democratici per quanto concerne il rispetto dei diritti umani. Oggi il Partito Repubblicano vive quindi una scissione tra i sostenitori di una politica estera coerente a quella egemone post dopoguerra e i continuatori del trumpismo. In questo quadro si inseriscono poi i Democratici al governo, che con Biden stanno perseguendo una terza via, vicina all’approccio storico del Partito ma con alcuni punti di contatto con le novità apportate da Trump.
Il primo campo di scontro evidenziabile per comprendere le differenze passa dal sostegno militare alla causa ucraina: in casa repubblicana non è un segreto la vicinanza che ha stretto l’ex Presidente Trump al leader Vladimir Putin. Trump, per di più, non ha mai esitato a definire la Nato obsoleta, un’alleanza pagata principalmente dagli americani, che non aveva alcun vantaggio in termini immediati. Chi sostiene il tycoon non esita a definire problematici gli assegni in bianco che la presidenza americana invia all’Ucraina, un eccessivo militarismo che drena risorse più utili per aiutare i cittadini americani. Il partito non è però compatto: è ancora presente un’ala più vicina alle posizioni classiche, fautrice di un interventismo in campo internazionale e di difesa della Nato come baluardo della presenza americana nel mondo occidentale. Per quanto riguarda invece la posizione di Biden, che ha anch’egli alla sua sinistra alcune voci che hanno criticato la politica estera americana degli ultimi decenni, l’appoggio all’Ucraina si legge in prima istanza come una difesa del mondo democratico dall’avanzata delle autocrazie. Quindi, no una politica di interesse immediato, come predicano le idee da businessman di Trump, ma che mette in primo piano l’aspetto valoriale e del rispetto dei diritti umani.
Proprio leggere principalmente dal punto di vista dei valori e non dei calcoli la politica estera avvicina invece le posizioni di Biden sulla Cina più a quelle proprie di Trump che del mondo Repubblicano classico: se Washington, dagli anni ’70 in avanti, ha adottato una postura soft con il comunismo cinese, arrivando a sponsorizzare l’ingresso del Paese asiatico nel Wto nel 2001, Trump è stato fautore di uno scontro muscolare con Pechino, in nome di un disimpegno dalle questioni europee e nel riconoscimento della Cina come del nuovo rivale del gigante americano. Allo stesso modo Biden non ha normalizzato del tutto i rapporti, perché è evidente come in Cina esistano gravi problemi, dal totalitarismo che restringe le libertà individuali fino al genocidio uiguro nello Xinjiang. Altro nodo per comprendere i rapporti con la grande potenza asiatica è quello del lavoro: la delocalizzazione delle fabbriche ha portato alla scomparsa di posti di lavoro a bassa qualifica soprattutto nel Midwest, che non a caso è stata la chiave della vittoria di Trump alle elezioni del 2016. Biden lo sa e si muove su un filo, cercando di tenere insieme tutte queste istanze per evitare di perdere nuovamente quella che è stata un’importante fetta dell’elettorato dem e tenere unito quello che al Congresso, per quanto riguarda la guerra in Ucraina, è una sorta di “centro di governo”.
Ne consegue che le idee di Taft del 1952 su uno scontro con la Cina comunista e un abbandono graduale del teatro europeo sono diventate a oggi maggioritarie nel Partito Repubblicano, con una piccola sacca ancora fedele agli ideali classici, ma hanno contaminato anche le idee della politica estera democratica in un intreccio di posizioni, a volte confliggenti idealmente tra loro, che sarà difficile sbrogliare prima delle elezioni del 2024.
(* collaboratore di Jefferson, scrive anche per Harvard Business Review Italia)