Prosegue la serie di articoli di Giorgio ‘Getto’ Viarengo dedicati ad illustrare la Chiavari dell’Ottocento e i tanti modi ed aspetti per i quali questo può a buon diritto essere riconosciuto come ‘il secolo d’oro’ della nostra città.
di GIORGIO ‘GETTO’ VIARENGO *
Dalla lettura degli atti pubblicati in occasione del Congresso Agrario del 1854, precedente quindi alla nascita del Comizio Agrario fondato solo nel 1868, ricaviamo materiale che ci permette confronti e stime precise per comprendere come fosse considerata la problematica dell’emigrazione.
Nella relazione di preparazione al Congresso si cercava d’individuare cause e problemi dell’economia agricola del tempo: “Altra causa che contribuì a tal danno si è la continua emigrazione che in questi paesi è talmente importante da meritare qualche parola in più”.
La relazione sopra citata mette a fuoco il problema e richiama due aspetti del fenomeno: uno temporale ( la continua emigrazione), l’altro sostanziale (talmente importante); chiavi di lettura per la perdurante depressione dell’economia contadina nel chiavarese causata dall’abbandono delle terre da parte dei migranti in partenza.
La documentazione si presenta in una chiave originale: non analizza infatti il micro-territorio di Chiavari, Comune con uno dei più alti rapporti residenti/territorio di tutto il Regno, ma pone sotto osservazione un ambito più ampio e ricerca le cause in uno sviluppo “provinciale-chiavarese”. Il relatore doveva anche riconoscere quanto la rete stradale fosse arretrata, rendendo difficile il commercio di scambio sul territorio: “A rendere incompiuto poi lo sviluppo agricolo contribuì l’assoluta mancanza di strade e ponti; perciò, non che difficili ben sovente erano impossibili le comunicazioni”.
La relazione, custodita in Società Economica negli atti del Congresso Agrario, passa poi ad analizzare le cause del danno economico che affligge il territorio, additando l’emigrazione come principale fattore causale, e specificando chi sono gli emigranti dal nostro territorio: si tratta “non solo d’uomini robusti ed atti a qualunque genere di più faticoso lavoro, ma di donne, di fanciulli, di intere famiglie”.
Il documento ci offre una gamma di tipologie dell’emigrazione partendo da quella definita periodica e temporanea; si tratta di lavori stagionali praticati dai contadini del litorale, le cui mete erano le coltivazioni intensive in territorio padano; quelle del riso in Lomellina, del lino e del gelso per la bachicoltura. Il reddito prodotto da tali migrazioni è calcolabile dai 60 ai 100 franchi per ciascheduno. La disponibilità di braccia contadine proveniva anche dall’entroterra, in particolare dalla valle dell’Aveto, dove verso novembre ci si recava in Lombardia, Toscana, Corsica e Romagna, per fornire manodopera nei lavori dei boschi, in particolare per segar alberi, facchini, coltivare terreni. Questi stagionali erano qualche migliaio, e nell’aprile successivo, con la ripresa della buona stagione facevano ritorno nelle fredde valli interne liguri, avendo guadagnato un centinaio di franchi per ognuno.
Altra forma d’emigrazione fu quella verso le Americhe, o paesi esteri, verso cui si partiva per periodi più lunghi con l’idea di realizzare progetti mirati, alcuni per “la ricerca dell’oro in California; questa migrazione è composta d’ogni genere di persone, dal contadino al cultore delle scienze”.
Questa importante relazione ci presenta poi un altro diffusissimo aspetto dell’emigrazione, quello che lo studioso Gian Marco Porcella individuava come “emigrazione vagabonda”, marginale, mai studiata prima ed emersa solo da pochi anni con ricerche mirate. Così continua infatti la relazione conservata in Economica: “Vanno uniti coloro che provvisti di musicali strumenti, od altro oggetto od animale che possa attirare la curiosità altrui vanno girovagando per Francia, Inghilterra, Germania, Italia, protraendo i lor giri fino a due tre anni; e riesce cosa spiacente vedere come alcuni di questi facciansi ad arruolare perfino venticinque o trenta ragazzi della tenera età di dodici anni, ed anche meno, i quali mediante il mantenimento ed una sterile corresponsione si obbligano a versare a lor mani tutto il profitto che ritraggono dalle industrie suddette”.
Il tema dei minorenni nell’ambito del dramma dell’emigrazione suscitò diverse iniziative di legge per contrastarne l’attività; riesce davvero amaro constatare che uno dei maggiori centri coinvolti fosse proprio il territorio chiavarese. In un’ordinanza conservata nell’Archivio Storico del Comune di Chiavari possiamo leggere: “Infami speculatori si recano ogni anno in Francia, col mezzo di menzognere promesse, ed anche con l’offerta di qualche somma di danaro ai più poveri, inducono disgraziati genitori ad affidar loro i figli ancora nell’infanzia, assicurando che faranno la fortuna dei medesimi. Alcuni più audaci, attraggono i ragazzi fuori dai paesi in cui dimorano e quindi se li portano via”.
Non bastarono però le ordinanze, fu il Parlamento a doversi occupare della questione; la commissione guidata dal parlamentare Giuseppe Guerzoni elaborò, nel marzo del 1873, un provvedimento per impedire “l’impiego di fanciulli in professioni girovaghe”. Nel testo dei lavori di commissione si ribadisce la centralità del nostro territorio: “In passato il principale fomite della servitù infantile operava in alcuni villaggi della Riviera Ligure e dell’Appennino, Santo Stefano d’Aveto, Borzonasca, Varese Ligure, Cicagna e i dintorni di Chiavari”.
Naturalmente non ci furono solo le pagine scoperte da Porcella e richiamate nella sua opera migliore, dove il solo titolo, “La Fatica e la Merica”, ci permette di capire il senso più autentico dell’emigrazione. Nella ricerca di chi passò da Ellis Island ritroviamo i mille destini di tutti i migranti che provarono “la fatica” e dei pochi che fecero fortuna scoprendo “la Merica”.
Nei lunghi viaggi oltre oceano con le prime navi in partenza da Genova, nei passaggi acquistati dalle compagnie con sede nella nostra città, dove l’Agenzia Emanuele Solari procurava le rotte migliori, la “Merica” era una destinazione non propriamente geografica, ma indicativa di un luogo cumulativo, indistinto ed ideale per l’immenso popolo dell’emigrazione, un luogo verso cui si partiva per cercare fortuna: il vero scopo di chi lasciava Chiavari.
(* storico e studioso delle tradizioni locali)