La redazione del nostro settimanale online ‘Piazza Levante’ è formata, per una sua parte, da giornalisti che hanno lavorato al ‘Corriere Mercantile’ e che sono cresciuti alla scuola di Mimmo Angeli. In questo articolo, Matteo Gerboni, Alberto Bruzzone e Danilo Sanguineti ricordano con affetto il loro storico direttore (nella foto qui in alto con il nostro editore, Antonio Gozzi), scomparso lo scorso 2 maggio all’età di 84 anni.
di MATTEO GERBONI, ALBERTO BRUZZONE e DANILO SANGUINETI
Per noi era un secondo padre. Mimmo Angeli aveva il giornalismo nel sangue e non hai mai smesso di essere giornalista, neppure quando è stato molto di più. Lui, capace di diventare all’occorrenza un imprenditore illuminato e lungimirante, ha tenuto in vita, nei suoi 36 anni di direzione, quel foglio che profumava di storia, il mitico ‘Corriere Mercantile’. Prima unico giornale del pomeriggio, poi un quotidiano del mattino in edicola in accoppiata con un’importante testata nazionale.
Ha dato tutto se stesso per quel manipolo di giornalisti e poligrafici che componevano una cooperativa con mille anime, senza mai concedersi un giorno di festa, senza mai guardare l’orologio, impegnandosi per rendere libero, autorevole e indipendente quel prestigioso pezzo di carta.
Onesto e rigoroso il Dire, come lo abbiamo chiamato sino all’ultimo, ha saputo creare un’eccellente ‘scuola’, e tutti lo hanno riconosciuto: a cominciare da quei giornalisti diventati famosi a livello nazionale che hanno sempre raccontato di aver iniziato al ‘Mercante’.
Sapeva scrivere e nel suo ufficio, sempre con la porta aperta, buttava giù in pochi minuti pezzi meditati, approfonditi, senza cedere mai all’euforia di un titolo o di uno scoop.
Aveva il fiuto del grande cronista. Non era un letterato ma uno scrittore sì: dei vezzi letterari non aveva bisogno, era la fantasia a muovergli la mano e la penna. Vedeva i fatti, i luoghi, i personaggi e li raccontava, ma la fantasia li associava ad altri personaggi, ad altri luoghi e ad altri fatti. Le sue interviste ‘a tu per tu’ ogni lunedì sapevano lasciarti dentro qualcosa, un messaggio, un insegnamento, una riflessione.
La sera in cui abbiamo confezionato l’ultima copia del giornale, ha riunito la redazione per un saluto. Rapido ma bellissimo, perché le lacrime lo hanno interrotto e la maggior parte di noi ha pianto insieme a lui. In quel momento abbiamo capito che stava regalandoci l’ultima lezione, dopo averlo fatto per tanti anni con qualche urlo per un pezzo, un titolo o una pagina mal pensati, stava dicendoci che l’amore e la passione per il proprio lavoro sono elementi che bisogna coltivare ogni giorno. E la professionalità e la correttezza non smetteranno mai di avere un valore inestimabile.
Nei giornali, in quelli che sono rimasti, si diventa direttore per due motivi. O perché sei molto astuto, o perché sei molto bravo. Quasi sempre perché sei molto bravo, a volte perché sei molto astuto.
Il Dire era diventato direttore del ‘Corriere Mercantile’ perché era di gran lunga il più bravo, perché aveva un fiuto eccezionale per la notizia, perché la sapeva vedere dove gli altri non la vedevano, perché aveva una quantità inesauribile di fonti, perché era il meglio inserito nel tessuto commerciale, imprenditoriale, professionale e sportivo della città.
Perché era il direttore nato. Punto.
Era severo, esigente, ma anche profondamente umano. Sapeva farti un mazzo così, ma anche scherzare, sapeva far tremare i muri quando prendevi un buco, ma un secondo dopo tornava con qualcosa da mangiare: “Tieni, assaggia questa focaccia, l’ho presa alla Scoffera”. O ancora: “Non ci andare dal fornaio, porto io”.
C’era sempre, anche quando doveva essere di corta. Così dava così un’occhiata alla prima pagina. Perché quando dirigi un giornale, quando la tua stessa vita è dentro quel giornale, non esiste che non si voglia ascoltare i titoli almeno al telefono, quando si è troppo lontani dalla redazione per poterci arrivare.
Diventi direttore perché sei il più bravo, e anche perché sei il più responsabile. Che è poi la tua qualifica completa. E Mimmo Angeli la responsabilità se l’è sempre presa: quando c’era da difendere un collega in tribunale per una querela, quando qualcuno della ‘Genova bene’ faceva pressioni, quando c’era da andare a Roma, a dar battaglia per il contributo all’editoria.
Non ci disse mai di dargli del tu. Ma è anche vero che non ci disse mai come dovevamo fare un pezzo. Con chi stavamo politicamente. Con chi stavamo calcisticamente. Una delle prime volte che lo sentimmo parlare, spiegò a noi giovani collaboratori: “A me non interessa se siete di destra o di sinistra, qui siamo indipendenti. Pensate solo a fare il vostro lavoro con impegno. Per i più bravi, c’è posto qui in redazione, in cima alla scala”.
Ci ha lasciati con un sorriso. Il suo tipico sorriso ironico, un misto di timidezza e di sfida. Quel sorriso intelligente, umile e intransigente. Aveva carattere. Per questo ha sempre raccontato ciò che ha visto e ha detto quel che pensava.
Fino all’ultimo.
Grazie di tutto caro Dire.