di MATTEO MUZIO *
Gli addetti ai lavori della politica americana hanno ricevuto da poco una notizia: la senatrice Dianne Feinstein della California è rientrata al lavoro dopo due mesi di malattia. Fin qui niente di strano.
Il problema è che Feinstein, classe 1933, sta subendo da anni un declino cognitivo che ne sta mettendo a rischio la capacità di svolgere adeguatamente il suo lavoro, specie nella delicata commissione giustizia, che discute le nomine dei giudici federali, gli stessi che poi decidono se le leggi varate dal Congresso federale o dagli Stati sono costituzionali o meno.
Eppure, non è così inconsueto vedere politici così anziani in servizio, a cominciare dal presidente Joe Biden, che ha compiuto 80 anni lo scorso novembre e che da poco ha annunciato la ricandidatura a un secondo mandato, che finirà all’età record di 86 anni.
Non sono da meno gli avversari repubblicani, d’orientamento conservatore: dopo qualche mese di sondaggi sfavorevoli, l’ex presidente Trump è nuovamente in vantaggio per essere nuovamente a capo del ticket elettorale repubblicano nel 2024. Per la terza volta, quindi, all’età di 78 anni. E secondo il portale Semafor, Trump qualora sconfitto ci potrebbe riprovare nel 2028, quando avrà l’età di Joe Biden.
Come si è arrivati a questo punto in un paese. Paese che ha sempre premiato l’innovazione anche in politica? Partiamo da un dato: secondo i dati raccolti dal portale Real Clear Politics, dal 22 giugno 2009 la maggioranza dell’opinione pubblica americana ritiene che il Paese stia andando nella direzione sbagliata.
Un dato che può anche essersi ristretto in alcuni passaggi (ad esempio dopo la rielezione di Obama nel 2012) ma che oggi ha raggiunto livelli preoccupanti: al 10 maggio, il 64,4% degli americani ha una sensazione pessimistica sulla direzione del Paese e questo prescinde dall’orientamento politico.
Un altro dato riguarda l’allargamento del gap tra chi si riconosce nei due partiti: una ricerca dell’istituto Pew Research registra un sostanziale distacco tra le due comunità che fino al 1994 condividevano molti punti in comune. E per un sistema come quello americano, dove il compromesso è stato nodale per tenere ferma la barra del Paese nei difficili anni della Guerra Fredda, è un problema sostanziale.
Infine: questa radicalizzazione si rispecchia in modo ancora più nei militanti dei partiti. Una parte consistente dei democratici sta guardando con interesse al socialismo europeo, quando non a posizioni più nettamente di sinistra, mentre i repubblicani stanno aderendo in massa a un nazional-conservatorismo simile a quello promosso dalle destre europee.
Guardando più a fondo, si nota come si stia erodendo in particolare un concetto astratto che ha accomunato per decenni le famiglie politiche americane: quello della libertà. Lo storico Eric Foner nel suo Storia della Libertà Americana ha tracciato un quadro dell’evoluzione di questo concetto, ma è evidente come sia sempre meno popolare, in senso astratto.
Da un lato, un’ala del movimento progressista è sempre più insofferente a pensieri e concetti ritenuti ‘offensivi’ di tutto una vasta gamma di minoranze, mentre a destra si vogliono rimuovere dalle biblioteche pubbliche tutti i libri che parlano di esperienze non conformi della comunità Lgbtq+ oppure di concetti razzialmente divisivi come l’eredità della schiavitù.
Si arriva al nostro punto: Joe Biden è stato descritto da alcuni analisi come “un democratico appartenente a un’altra epoca”: favorevole a un welfare generoso e a una spesa pubblica abbondante, ma allo stesso tempo ben consapevole del ruolo americano nel mondo, difensore degli altri Paesi democratici, che includono anche l’Ucraina e Taiwan. Difficilmente altri democratici contemporanei possono avere questo stesso identikit da ‘grande spazio’ politico che si fa accogliente tanto per i radicali quanto per i moderati.
Un sottile punto d’equilibrio che certo non è coperto dalla sua vicepresidente Kamala Harris: pur condividendo le idee di Biden in politica estera, è nota la sua passione per le polemiche generate sui social da influencer di estrema sinistra, tanto che il loro apprezzamento le costò una catastrofica campagna elettorale alle primarie democratiche nel 2019, interrotta bruscamente per numeri impietosi nei sondaggi.
Anche il campo repubblicano però non ride: la migliore alternativa a Donald Trump, il governatore della Florida Ron DeSantis, si è dimostrato incapace di recuperare quella ‘salute mentale’ che il trumpismo avrebbe sospeso. Non solo ha sposato posizioni vicine al movimento novax durante la pandemia nel suo Stato, ma si è espresso in termini ambigui sul conflitto in Ucraina, da lui definito quale semplice ‘disputa territoriale’. E allora ecco che Trump, nonostante si sia dimostrato ampiamente incapace di mantenere una direzione coerente durante i suoi anni di presidenza, è preferibile a un DeSantis che ha mostrato di non apprezzare né la libertà accademica dei professori che lo criticano, né tantomeno la libertà di un’impresa di gestirsi come si vuole, ad esempio chiedendo ai suoi dipendenti di rispettare obblighi vaccinali.
Non stupisce quindi che nel campo conservatore la residua voce della ragionevolezza sia l’ottantunenne leader del Senato Mitch McConnell, fortemente critico del trumpismo e fautore di un necessario cambio di registro. Gli elettori sono quindi condannati a una stanca ripetizione del 2024 per mancanza di alternative?
Probabilmente sì: ma c’è una nuova generazione di politici sia repubblicana che democratica che sta scoprendo le virtù della moderazione politica in stati piccoli e periferici: è il caso dei governatori del New Hampshire e del Colorado, Chris Sununu e Jared Polis, entrambi poco meno che cinquantenni, rispettivamente repubblicano e democratico che governano i loro stati usando pragmatismo e moderazione, per rendere il loro territorio accogliente e sicuro per i residenti e attraente per gli investitori.
Un modello che però fatica a emergere in un’opinione pubblica polarizzata e affamata di ‘polemiche culturali’ polarizzanti. Dopo Biden e Trump, serve che qualcuno riscopra le virtù del buonsenso che pure ha molti estimatori: non è un caso che il più popolare dei politici locali americani sia il repubblicano Phil Scott, governatore del Vermont, stato molto progressista, con numeri di consenso oltre il 70%.
Bisogna spezzare il circolo vizioso e ripartire con una visione di futuro che raccolga il meglio delle due tradizioni politiche.
(* giornalista e ideatore del blog Jefferson – Lettere sull’America)