di ENRICO ROVEGNO *
Tra i tanti libri interessanti presentati nel corso di questo 2023 alla Società Economica, giusto rilievo mi sembra si debba riconoscere a uno studio dedicato da Maria Teresa Caprile all’opera di Giorgio Caproni, nella prospettiva di un suo utilizzo come modello di lingua italiana: La poesia di Giorgio Caproni (per imparare l’italiano e per conoscere l’Italia), ed. Gammarò, 2022. Richiesto di un intervento, accennai in quella occasione a un aspetto particolare della lingua dell’ultimo Caproni, che tra forme reticenti e non detto configura una sorta di “poetica del quasi”. Ne ripropongo qui una sintesi.
Caproni e la poetica del “quasi”: la Parola come Res amissa.
Nel 2017 all’ esame di stato, nella prima prova, venne proposta agli studenti per l’analisi di un testo una poesia di Giorgio Caproni, Versicoli quasi ecologici. Suscitò un certo clamore la scelta di un autore difficilmente compreso nei programmi scolastici e che, benché ormai riconosciuto come uno dei grandi poeti del ’900, risultava piuttosto sconosciuto alla maggioranza degli allievi (e dei professori?) nonostante fossero passati quasi trent’anni dalla sua morte (1990).
Ciò nonostante il riferimento – già contenuto nel titolo – al “sacro tema” dell’ecologia secondo i più rendeva accettabile la scelta ministeriale: peccato che, se si fosse conosciuto meglio il poeta livornese, si sarebbe visto che il titolo era, in origine, più complesso – Versicoli (quasi ecologici) scritti con disperazione e su ordinazione – tanto da far dubitare sulla qualità dell’ecologismo di Caproni; e forse si sarebbe riconosciuto che l’indizio più interessante di appartenenza alla grande poesia di Caproni (comunque almeno parzialmente negato dalla scelta d’autore della parola “versicoli”, evidentemente riduttiva), la parola più caproniana insomma di quella lirica, era non tanto l’aggettivo “ecologici”, quanto l’avverbio “quasi”.
“Quasi” è infatti parola che ricorre in Caproni in molti luoghi, almeno fin da Il muro della terra, che proprio nel segno del “quasi” incominciava e finiva (da Quasi ad aulica dedica, il testo iniziale dedicato alla moglie “quasi longobarda ancora”, a Quasi da “Poesia e verità” o L’aulico egoista, poesia conclusiva della raccolta). La raccolta dove più volte (12) compare il “quasi” è però la postuma Res amissa (d’ora in poi RA), cui appartengono anche i Versicoli assurti all’onore dell’esame di Stato.
In particolare nella omonima sezione, composta di 4 testi, che conta ben 4 occorrenze su 12, con una funzione sempre significativamente in sospeso fra l’attenuazione e la reticenza, due atteggiamenti che con le relative figure retoriche e scelte stilistiche sono ben presenti in tutto l’ultimo Caproni.
Per limitarci dunque a RA, ecco il “quasi” nella sua più frequente posizione di modifica di un aggettivo: l’aria che improvvisamente “agghiaccia” la stanza all’inizio della lirica che dà il titolo alla raccolta è “quasisilicea”; le “due compatte masse / tese” che sembrano stringere un “patto” nell’omonima poesia sono “quasiacciaiescenti”; e nella contigua Invenzioni risuonano all’inizio “Quelle impalpabili voci / quasi trasparenti…”.
In tutta la raccolta si registra anche un frequente uso del “quasi” come congiunzione: così L’ignarodell’omonima poesia rimane turbato “Quasi / come chi si sia a un tratto visto / spogliato d’una rendita”; il protagonista di Mancato acquisto confessa: “Tutto era mutato. // Quasi / non riconoscevo il locale”; la figlia attesa (in Aspettando Silvana) “Un’altra volta viene / – verrà – senza / che io ne abbia scritto o udito / (quasifossi di sasso) / la figura: il passo”; “Tutti quei fiori… – nella lirica Senza titolo – [sono] così forti negli occhi / fin quasi a spaccarli”; e nel testo In lode del “Singolo”, “il silenzio teso / del passaggio si strema / nelle sue fasce quasi come, / dopo l’estremo / strappo, il tremore / d’acero d’un violino…”.
In casi come questi sembra che il ricorso al “quasi” risponda al desiderio del poeta di ammettere una conoscenza imperfetta della realtà che vuole rappresentare, una sua incertezza cognitiva cui corrisponde una imperfetta capacità descrittiva della parola che quella realtà vorrebbe invece descrivere. E d’altro canto si ha anche l’impressione che – a questa sorta di reticenza a definire con parola esatta e precisa una realtà di cui si ha ormai una percezione sempre più inesatta e imprecisa – si alterni inesausta la tensione a trovarla comunque una parola: che definisca, che colga l’essenza della “cosa”, dell’oggetto reale.
Questa tensione porta alla creazione, soprattutto in Res amissa e soprattutto dove il “quasi” è accostato a un aggettivo, di nuove parole (anche in questa direzione è particolarmente efficace l’azione di scavo e di schedatura compiuta dalla Caprile nel suo libro): neologismi come il già citato “quasi acciaiescenti”, o – ancora più in rilievo vista la posizione in chiusura della prima lirica della raccolta – “Quasi […] flautoclarinescente”, per descrivere la rima “sempre in me battente… // Fonda e dolce…” dedicata alla moglie Rina.
Come ho già avuto modo di osservare a suo tempo in una mia lettura di Res amissa, questa “caccia alla parola” in grado di cogliere meglio la realtà si rivela però impresa disperata e disperante, in cui si potrebbe forse vedere una variazione del grande tema della “caccia” (a Dio, al Bene, alla Bestia, all’io…) così presente nelle ultime raccolte. Si pensi, a titolo di esempio, nel Franco cacciatore, all’ammissione dell’incapacità definitoria della parola (“Le parole. Già. / Dissolvono l’oggetto.”); o ancora, nel Conte di Kevenhüller, dove questa riflessione si fa più densa, alla sua modulazione in poesie come Abendempfindung – “Recito la mia preghiera. // Al Nume? // Forse / perdutamente e senza / revoca – // al vacuo: // al Nome” – e come la successiva Il nome – “Il nome non è la persona. // Il nome è la larva”. Qui la parola è messa di fronte alla denuncia dell’inafferrabilità della sua essenza, Bestia davvero imprendibile (“L’ònoma non lascia orma. / E’ pura grammatica. / Bestia perciò senza forma. / Imprendibilmente erratica.”: cfr. L’onoma). E per finire, in RA, cfr. a questo proposito La tagliola: “La parola. / La tagliola. // Occhio! / Sono una cosa sola”.
Da sottolineare poi che al quasi – nella sua funzione di attenuazione del giudizio sulla realtà – si accostano spesso nelle ultime raccolte altre forme che assumono a pieno titolo una connotazione di autentica reticenza, ad esempio l’adozione dei puntini di sospensione (da tre a sei) a fine verso, anche come separazione tra le strofe: in particolare i sei puntini si trovano a partire dal Franco cacciatore (in 2 testi), sono poi più frequenti nel Conte di Kevenhüller (in 8 testi), mentre in RA dilagano sia i tre puntini (96 volte in 30 testi!), sia i sei: nella poesia eponima appaiono ben diciotto volte, dodici delle quali appunto a sei per volta, al punto che l’intera lirica si presenta come una sorta di ricordo esitante e indeciso, volutamente lacunoso: tanto da sembrare uno sporgersi dell’autore verso l’abisso del silenzio.
È una impressione avvalorata dalle due domande tra parentesi, che riguardano l’aria ghiaccia entrata nella stanza – (“E’ lama di coltello? // Tormento / oltre il vetro ed il legno / – serrato – dell’imposta?)” – e che segnano un ulteriore aggravamento di quella esitazione: va sottolineato infatti come, tra le altre forme alle quali più spesso il poeta si affida per esprimere con il linguaggio questa che ormai potremmo quasi ritenere una attitudine esistenziale, abbia particolare rilevanza la frase interrogativa o dubitativa: una forma che – già molto presente nelle precedenti raccolte dell’ultimo tempo del poeta – diventa a sua volta frequentissima in RA, dove ne registriamo una vera e propria semina (oltre cinquanta occorrenze, delle quali ben 11 nelle 4 poesie che costituiscono l’omonima sezione): 6+11+9+4+12+14.
Ma se in RA in generale gli interrogativi si moltiplicano fino a divenire una costante del linguaggio poetico, in alcuni testi assumono poi un peso particolare, fino al caso in cui arrivano a costituirne il titolo: vedi i Tre interrogativi, senza data, che compaiono nella sezione Inserto e in cui si articola un pensiero dubitativo sul tempo e sullo spazio:
“Già ho toccato la meta? / Son già anch’io, sul pianeta, / soltanto uno dei suoi tanti / – smarriti – disabitanti?”;
“Quando non sarò più in nessun dove / e in nessun quando, dove / sarò, e in che quando?”;
“Sfondata ogni porta, / abbattute le mura, / è il cosiddetto Infinito / la nostra vera clausura?…”.
“Smarrito disabitante del pianeta”, così dunque si definisce qui il poeta: e proprio questo tema dello smarrimento e dello spaesamento, che iniziava già nel Muro della terra con il dichiarato Bisogno di guida, e aveva visto l’approdo nel Franco cacciatore ai “luoghi non giurisdizionali”, in RA ha il suo esito estremo appunto “In terra di smarrimento” (cfr. Minuetto), altrove definita “terra di macigni” (“E’ terra di macigni. Terra di gente sassosa. Terra dove la rosa / si dice che non alligni”).
E neppure i riferimenti alla “sua” val Trebbia risultano rassicuranti, infatti non bastano a far sì che il poeta non si senta più “sperso”, come appunto accadeva nel Bisogno di guida già menzionato: tanto che persino in Statale 45 (una delle liriche più significative dell’intera raccolta) ogni concreto riferimento a quella strada ben conosciuta subisce uno straniamento, ogni segnale stradale assume anche un valore simbolico, attraverso un procedimento figurale che lo fa diventare parte di una segnaletica interiore: non a caso “la mente è tesa”, e alla fine “Più di una volta / la presunta meta / si rivela un’insidia”.
E’ la stessa angosciante incertezza spazio-temporale denunciata nel secondo dei Tre interrogativiappena citati, la sensazione di non essere “più in nessun dove / e in nessun quando”. Una condizione che farà dire a Luigi Surdich, nella sua lettura di Statale 45, che in RA Caproni non simula un congedo, come nei versi del famoso Congedo del viaggiatore cerimonioso degli anni Sessanta, ma “vive il suo congedo”: si tratta infatti in tutti i sensi, sostiene Surdich, di un Caproni ormai “postumo”.
Un poeta che negli ultimi anni della sua vita si è davvero sporto più volte sull’abisso del silenzio, come già si accennava, servendosi in svariate forme di un “non detto” che sempre più spesso a lui pare non poter essere riempito da alcuna parola.
La lirica Res amissa ne contiene la definitiva conferma: lo stesso Caproni in un’intervista dice che la “cosa perduta” può essere “il Bene perduto. Un Bene del tutto lasciato ad libitum del lettore, magari identificabile, per un credente, con la Grazia”; poi, ironicamente, aggiunge che non crede essere quello il suo caso; ebbene, il lettore avrebbe a mio avviso molti motivi per identificare quel Bene proprio con la Parola: può davvero essere questa, per un poeta che veramente le ha dato la caccia per tutta la vita, la “cosa perduta” di cui Caproni confessa – in un testo così ultimativo – che alla domanda sul suo destino “- niente può – dar risposta”, per concludere definendo irrecuperabile la sua perdita: «Non spero più di trovarla / l’ho troppo gelosamente / (irrecuperabilmente) riposta».
(* Vice presidente della Società Economica e assessore alla Biblioteca)