C’è un settore particolare, nell’ambito della raccolta differenziata, nel quale l’Italia è ai primi posti in tutta Europa. Si tratta del riciclo dei RAEE, ovvero i Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche.
Il nostro paese è arrivato a recuperare (i dati sono relativi al 2018) sino al 79% degli scarti: una percentuale assolutamente di tutto rispetto e che può ancora essere migliorata grazie a una maggiore informazione e a comportamenti sempre più virtuosi.
È una forma di economia circolare che, tradotta in soldi, significa un notevolissimo risparmio, oltre che un maggior rispetto di tutto l’ambiente. Un ulteriore aumento si è verificato, ad esempio, con la diffusione sempre più ampia dell’e-commerce e delle formule ‘uno contro uno’ (cioè la consegna del nuovo e, contestualmente, il ritiro dell’usato).
Il punto da perfezionare, però, è ancora quello del mercato ‘a valle’: i prodotti rigenerati, cioè, non piacciono molto ai paesi del vecchio continente e la loro esportazione è in calo. Per questo diventa una priorità rafforzare la ricerca e lo sviluppo, per dar vita a un nuovo mercato di prodotti creati con materiali riciclati.
In prima linea su queste tematiche opera l’Ariadne’s Green Thread Project, un’iniziativa sorta all’interno della startup genovese Futuredata e volta a promuovere la sostenibilità e l’impegno sociale nel mondo dell’industria elettrica ed elettronica. A cominciare, quindi, dal riciclo dei RAEE.
Del gruppo fanno parte Rosario e Cosimo Capponi, Miriam Kisilevsky, Alessio De Gregorio e Giulia Delodi. Gli uffici sono collocati presso il Social Hub di via Gramsci.
Miriam Kisilevsky, fondatrice e project manager della Futurdata con il progetto Ariadne’s, spiega la filosofia del loro lavoro: “L’industria elettronica è una delle attività che maggiormente dipende dai cosiddetti ‘materiali critici’, quelli che oggi sono ancora poco recuperati, a discapito delle riserve naturali che sono oltremodo sfruttate. L’estrazione e la raffinazione dei ‘materiali critici’ comporta elevati impatti ambientali e spesso luoghi di lavoro insalubri. Ancora oggi, grandi quantità di RAEE sono trattate per recuperarne i materiali contenuti in modo rischioso per la salute delle persone e dell’ambiente”.
Ecco perché si è pensato all’Ariadne’s Green Thread Project: “Ci proponiamo – prosegue Miriam Kisilevsky – di realizzare le migliori condizioni perché si possano recuperare e riutilizzare efficientemente tutti i materiali presenti nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche. In questo modo, si cerca di preservare le risorse naturali, di aumentare le possibilità di approvvigionamento e di promuovere un modello di economia circolare per un’industria elettronica più sostenibile”.
Nel mondo, ogni anno, sono stimate tra le quaranta e le cinquanta tonnellate di rifiuti RAEE. Ci sono telefonini, tablet, computer, televisori, ma anche grandi elettrodomestici, come frigoriferi, lavatrici, congelatori, lavastoviglie. In pratica, tutti gli oggetti del nostro uso quotidiano. Siamo abituarti a vederli, ad usarli, ma ci siamo mai chiesti dove vanno a finire una volta che li dismettiamo? Il loro smaltimento è un processo assai complesso. E non tutti i paesi, purtroppo, sono virtuosi come l’Italia. A cominciare da colossi come Stati Uniti e Giappone.
Negli anni Novanta, l’accordo di Basilea ha vietato il commercio dei RAEE. Ogni nazione, in pratica, deve gestire in autonomia la propria quota. A non aderire sono stati proprio Stati Uniti e Giappone, che sono le nazioni dove si produce la maggior parte di apparecchiature elettriche ed elettroniche.
Cosa succede quindi? Gran parte dei loro RAEE finiscono, spesso stivati in container (purtroppo anche sotto la mendace forma di aiuti umanitari), nei paesi del Terzo Mondo, dove rappresentano un’opportunità per le persone che vi abitano, ma in condizioni di lavoro e ambientali estreme, quando non completamente nocive.
Il riciclo dei RAEE in maniera non appropriata è un fatto molto grave: perché chi se ne occupa respira aria avvelenata e perché viene compromesso tutto l’ambiente circostante. In Africa, il più grande sito si trova ad Agbogbloshie, in Ghana: vi lavorano circa quarantamila persone, che spesso smontano i rifiuti a mani nude, cercano di salvare le parti che possono rivendere (come il rame e l’alluminio) e poi bruciano la plastica, inalando veleni di ogni tipo. Stesso discorso nella cittadina di Guiyu, nella provincia di Guangdong (Mar Cinese Meridionale): qui gli addetti, ma sarebbe più appropriato dire i ‘disperati’, sono duecentomila.
“Se l’Italia arriva a riciclare in ottime percentuali – sostiene Miriam Kisilevsky – lo stesso si può dire anche per Francia, Germania e Spagna. Ma non si può certo dire per gli Stati Uniti, fermi al 25%, e per la Cina, ferma al 18%. Ancora troppi sono i RAEE che vengono smaltiti nell’ambiente in maniera impropria o che vengono mandati a queste discariche dove si lavora in condizioni disumane. Dobbiamo cercare di fermare il più possibile tutto ciò”.
Ariadne’s va appunto in questa direzione. “Noi siamo, in sostanza, una sorta di collegamento, tra produttori e consumatori. Forniamo elenchi dettagliati di cosa è possibile riciclare e dove è possibile trovarlo. Abbiamo allestito una banca dati che raccoglie moltissime informazioni da parte delle aziende produttrici su ciò che riguarda i componenti. Più i materiali vengono censiti, più verrà la voglia di recuperarli dove già esistono, invece di andarne a ricavare di nuovi. Mi riferisco, in particolare, alle ‘terre rare'”. Ovvero, quei minerali che spesso sono contenuti in piccolissime parti all’interno delle rocce, e quindi ricavarli è davvero molto costoso.
Secondo studi recenti, il valore dello scarto dei RAEE è elevatissimo: 18,8 miliardi di euro per l’oro; 15 per la plastica; 9,5 per il rame; 3,6 per l’alluminio; 3,6 per il ferro; 3,4 per il palladio; 0,9 per l’argento. Un’attività diligente può far diventare il recupero del RAEE un’ottima opportunità. “Ma occorre farlo in tutto il mondo, creando anche aiuti ed incentivi per chi lo voglia fare”.
In Italia i processi sono ben precisi e standardizzati. I RAEE devono essere trattati in modo adeguato e destinati al rifiuto differenziato o portati direttamente nelle apposite isole ecologiche, così da evitare l’estrazione o lo spreco di altre risorse per costruire dispositivi nuovi. Lo smaltimento e il conseguente recupero devono avvenire in centri autorizzati alla gestione dei rifiuti, conformi alle direttive dell’Unione Europea. Qui, i componenti riutilizzabili vengono indirizzati alla fase di ricondizionamento e di rigenerazione, mentre i materiali pericolosi per l’ambiente vengono dovutamente smaltiti. Si tratta, spesso, di sostanze anche pericolose e tossiche, come piombo, mercurio, rame, ferro e plastica.
Oggi, su cinquanta milioni di tonnellate di RAEE prodotti annualmente nel mondo, solo il 20% complessivo viene correttamente gestito. Il rimanente finisce nell’ambiente, con conseguenze dannose e molto pesanti.
È un altro settore sul quale occorre lavorare, non solo in termini pratici, ma anche e soprattutto a livello d’informazione. Ariadne’s va esattamente in questa direzione: un esperimento che è già valso il premio Smart Cup 2018 per la categoria ‘Cleantech & Energy’. “Oltre a creare un’economia circolare – conclude Miriam Kisilevsky – è nostro intento, in quanto startup a vocazione sociale, reinvestire almeno il 5% degli utili in Africa, proprio per aiutare queste persone impiegate nelle discariche a lavorare in modo più sicuro, senza sfruttamento di minori e recuperando anche le ‘terre rare’ dentro i RAEE che attualmente vengono buttate o bruciate”.
Per salvare la tecnologia, per salvare le opere dell’ingegno umano occorre… altrettanto ingegno umano.
(al.br.)