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Giovedì, 1 giugno 2023 - Numero 272

Il chiavarese Franco Lecca, da 50 anni l’uomo della fotografia al cinema: “Così rendo immortali le immagini”

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di ALBERTO BRUZZONE

Negli anni Sessanta, nel Carruggio Dritu di Chiavari, solevano passeggiare su e giù e intrattenersi in lunghe conversazioni culturali. Tre amici, tre grandissimi talenti, ognuno nel rispettivo campo. Tre persone che avrebbero dato, e che poi in effetti hanno dato, un contributo enorme alle arti.

Tre chiavaresi: Franco Lecca, Mario Cresci e Luigi Grande. Il primo nel cinema, il secondo nella fotografia e il terzo nella pittura, hanno avuto una carriera luminosa, che dal Tigullio si è irradiata in campo nazionale e internazionale.

E da oggi ‘Piazza Levante’ vuole celebrare con piacere queste figure, cittadini arcinoti al di fuori della loro ‘patria’ e che, certamente, meritano di essere ricordati anche laddove tutto cominciò, prima che la memoria rischi di diradarsi.

In questo numero ospitiamo la storia umana e professionale di Franco Lecca, da cinquant’anni direttore della fotografia professionista e presente in importantissime produzioni sia per il grande che per il piccolo schermo: ha lavorato con registi del calibro di Marco Tullio Giordana, Luigi Faccini, Stefano Sollima, Maurizio Ponzi, i fratelli Antonio e Andrea Frazzi, ed è nei titoli di una lunga serie di episodi del ‘Commissario Montalbano’ sulla Rai.

Diplomatosi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, nel biennio 1964/1966, nella sezione ‘Ripresa Cinematografica’, risiede nella Capitale ed è ancora attivissimo, oltre che nella settima arte, anche nell’insegnamento, dove prova a trasmettere alle nuove generazioni tutta la sua esperienza: attualmente, è docente nella sezione ‘Fotografia Cinematografica’ della Scuola Gian Maria Volontè di Roma.

Maestro Lecca, lei è indubbiamente uno dei direttori della fotografia più longevi: ama il suo lavoro come il primo giorno? Con quanta passione lo porta avanti?
“Molti anni fa, durante la mia prima giornata di lavoro cinematografico – sindacalmente pagato (!) – mi dibattevo nell’ansia: accendere i proiettori per illuminare la scena, eseguire difficili movimenti espressivi con la macchina da presa, l’occhio sprofondato nella ‘loupe’ offuscata dal sudore che mi rendeva quasi cieco, e nel panico… con il passaggio della mia tanto attesa giornata di esordio cinematografico: una delusione! Oggi so di aver conquistato le basi di un linguaggio tecnico-formale che mi consente di trasferire nelle immagini, e in particolare quelle di cinema, una sensazione di certezza estetica, per cosi dire metaforica, che ho sempre sentito agire in me attraverso il mio proprio sguardo, rivolto nelle forme sensibili del mondo reale, o virtuale che sia. Per me le immagini sono il segno ambiguo del passaggio del tempo in ogni vita, sono la traccia espressiva di ogni esistenza, che ri-cerco e re-incontro nella mia quotidianità, con una sensazione di profonda amicizia”.

Nella sua lunghissima carriera ha fatto anche il regista: quali altri mestieri del cinema conosce o le sarebbe piaciuto fare?
“Fare il ‘montatore’ cinematografico: perché il montaggio è ancora lo ‘sguardo’ labirintico, emozionale, concettuale, che sa ri-comporre e ri-costruire nella sua forma autentica il ‘visibile’ disperso, già veicolato e frammentato nelle immagini che costituiscono la totalità del materiale ‘girato’ per il film. Voglio dire che il ‘montatore’ è, con il regista, il vero artefice della forma definitiva del racconto e della sua risalita poetica. E lavora alle immagini, chiuso in una stanza, nel grande privilegio di starsene fuori da tutti i grandi casini del set”.

Ha lavorato moltissimo sia per il grande schermo che per la televisione: come cambia il suo lavoro, a seconda del mezzo in cui viene pensata e trasmessa una produzione?
“Oggi la produzione cinematografica dei film o delle serie televisive, nei suoi vari generi, si è livellata su alcuni criteri di base: l’indice di ascolto e gli incassi al botteghino. A prescindere da ogni altra considerazione di tipo estetico-economico-finanziario, il criterio predominante è quasi sempre incentrato sui tempi di lavoro da rispettare ad ogni costo, in velocità, per forza di cose sacrificando il più delle volte la qualità del prodotto: non più in senso tecnico e ideativo come avveniva nel passato, ma, nell’esasperato professionalismo ormai inflazionato (che soddisfa pienamente il punto di vista delle case di produzione), nella rimessa in gioco della coatta e inattiva partecipazione dei lavoratori cosiddetti creativi, nella realizzazione di qualsiasi progetto, più o meno sfruttabile o candidabile al successo popolare. Preferisco sempre di più la forma ‘documentaristica’ all’interno di un cinema riattualizzato nel presente di oggi, che si proponga di descrivere esistenze e contenuti rimossi nei territori e nelle geografie psico-antropologiche del nostro paese-Italia, sulla lezione dei grandi autori-artisti del Novecento, e non solo dei registi-artisti di cinema”.

L’attore Luca Zingaretti in uno degli episodi della serie tv ‘Il Commissario Montalbano’

Il mondo della cinematografia è in rapida evoluzione. Anche l’Italia si è adeguata al ‘dominio’ delle serie televisive. Lei ha fatto moltissimi episodi di Montalbano, ad esempio: il livello televisivo è analogo a quello del cinema, o resta secondo lei un gradino più sotto?
“L’immagine, nei racconti televisivi, non tollera più di tanto lo sviluppo di un autentico stile cinematografico, che non sia supportato, nelle sue varianti tematiche, da un qualche pseudo interesse spettacolare. Il caso della fiction Montalbano di cui ho quasi per venti anni realizzato le strutture della luce, è una felice combinazione di stile visivo e narrazione affabulante, estratta da un certo mondo siciliano, rappresentato secondo gli schemi del genere ‘noir’. Una superficie visual-narrativa da ‘fiction’ fotografata in stile favola, rigorosamente logica e ossessivamente esplicativa. Qualità che hanno decretato il successo mondiale della serie ‘cinematografica’, insieme a quello editoriale dello scrittore Camilleri”.

Di quali registi e attori conserva il miglior ricordo, e con quali le sarebbe piaciuto lavorare?
“Il miglior ricordo è per il mio amico Alberto Sironi, regista di tutti gli episodi Montalbano. Ho ammirato e condiviso il rigore descrittivo-figurativo di ogni ‘sua’ scena, ben satura di quella felice ostinazione perseguita nella scelta dei suoi veri attori, spesso anonimi o provenienti dal teatro dialettale siciliano. Ho molto amato il cinema di Antonioni: la sua autentica distanza poetica infusa nella materia raccontata con uno sguardo impietoso, tenero e cristallino. Durante il lavoro sul set il suo stile di ‘ripresa’ ha spesso guidato la composizione figurativa delle mie inquadrature. Ma il regista con il quale mi sarebbe davvero piaciuto lavorare o semplicemente assistere alla lavorazione di un suo film è il francese Robert Bresson, che ritengo uno dei più grandi in assoluto. Mai nel corso dei molti film visti fino a quel giorno Bresson mi aveva trasmesso all’improvviso – durante il passaggio notturno di uno dei battelli per turisti sotto l’arcata di un ponte sulla Senna di Parigi – una sensazione di felicità cosi intensa da tremare come in uno stato di grazia visionaria: fu nel film ‘Quattro notti di un sognatore’”.

Cinecittà ieri e oggi: differenze?
“Quando negli anni Sessanta frequentavo come allievo il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, i docenti ci portavano nei teatri di posa di Cinecittà, a visitare il set di registi famosi, fra cui il grande Federico Fellini. Erano gli anni di gloriosa attività produttiva di film realizzati da veri registi-artisti. Col tempo anche il cinema dei teatri di posa di Cinecittà si è lentamente spento e oggi in quelli spazi-ricovero si alternano produzioni televisive, fuori da ogni intento culturale e di condivisa ispirazione tossica, per consolare le serate di un pubblico rinunciatario e senza attese: oggi quei tristi teatri di fine-cinema sono l’immagine di un plagio”.

Quando incontra i suoi studenti come si racconta? Che cosa fa, in poche parole, un direttore della fotografia?
“Se non lavoro sul set, guardo a lungo le nuvole, il fiume, i marciapiedi della città dove vivo e dove transitano migliaia di volti non attori, sfaccettati nella luce che vorrei memorizzare per ri-costruirla nella prossima scena dal vero o in teatro. In fondo un direttore della fotografia non fa proprio nulla: contempla le forme toccate dalla luce, mentre il suo sguardo mentale ritorna ogni volta nel punto di partenza che è una fine, di cosa? Quando incontra in aula o in teatro di posa i suoi studenti, commenta, descrive, specula e inventa ingenue ipotesi di critica definitiva, nell’augurio e nel sogno di un’impossibile utopia che possa permettere alle immagini del mondo sensibile non ancora trasferito-elaborato in immagine, di esistere per sempre: libero, nell’immanenza del reale”.

Come si sviluppa e lei come l’ha sviluppata nello specifico, una buona cultura dell’immagine?
“Trascorso il tempo dell’infanzia (dove il mondo naturale mi appariva con l’intensità inquietante di una presenza misteriosa), è stato nell’adolescenza che ho desiderato rinnovare i legami affettivi con i luoghi, gli amici e le persone che incontravo ogni giorno, ma che per continuare ad esistere in continuità temporale dovevano essere ‘eternizzati’ e ‘tradotti’ in una forma visibile, che ne attestasse il tempo e l’esistenza concreta: era la mia scoperta dell’immagine fotografica che nel seguito della mia vita avrei coltivato e ri-trovato in ogni momento. Dunque mi avventuravo nell’attimo, nell’istante, negli scatti evento delle prime fotografie che non erano ancora immagini, ma ricordi, pagine di tecnica fotografica, fantasticherie, in parallelo col cinema: vedere i film sul grande schermo di proiezione, un’esperienza struggente, quasi una fissazione maniacale. Fino al giorno della mia partenza da Chiavari diretto a Roma per frequentare la scuola di Cinema: il Centro Sperimentale di Cinematografia, luogo ideale per iniziare finalmente il difficile percorso professionale del Direttore della Fotografia Cinematografica”.

Sergio Castellitto e Ilaria Occhini in una scena del film ‘Don Milani – Il priore di Barbiana’

Lei è anche un buon fotografo?
“Non lo sono mai stato. Ero e sono rimasto piuttosto sensibile al lato riproduttivo dell’immagine fotografica, molto meno a quello della rappresentazione enfatica di un dato soggetto. In realtà l’immagine fotografica mi è sempre rimasta sospesa fra la visione-percezione di una certa evidenza plastica realizzata in termini estetici, e la concitazione espressiva del soggetto raffigurato. Ho sempre preferito le immagini neutre, appena al di sopra della soglia della documentazione oggettiva. Mi attraggono soprattutto le immagini che testimoniano di un qualcosa che il proprio cervello aggiunge arbitrariamente, anche ben al di là del visibile, mostrato in quella certa immagine. Mi intrigano ad esempio le immagini ambigue di Duane Michals: la contemporaneità e l’assenza sincrone in quel luogo cosi ben descritto in modo realistico, ma differito esteticamente in una sottile sensazione di nostalgia e vuoto. Sono immagini affascinanti”.

Lei è nato a Chiavari, cresciuto nel Tigullio, qui ha studiato, prima di trasferirsi: ricordi, esperienze, persone con cui ancora è in contatto.
“I miei genitori erano sardi e hanno parlato in sardo per tutta la loro vita in una bellissima casa ligure dove hanno vissuto fino al giorno della loro morte (sono sepolti nel cimitero di Ri Alto). Premetto questo fatto per me importantissimo per dire che la Liguria è il luogo del mio ritorno, e dei ricordi nel presente di oggi, nei luoghi che ho profondamente amato, le belle colline a ulivi, i boschi, i castagneti dell’entroterra, il fiume Entella e le amicizie giovanili, il mare dove ho navigato più di un anno imbarcato su petroliera in giro per il mondo, visto che mi sono diplomato al Nautico di Camogli sezione Macchina. Insomma, sono stato un ligure anomalo e nomade fra tutti gli amici dispersi, mentre da una vita continua l’amicizia con Luigi Grande, un vero pittore del quale in diverse occasioni ho scritto testi di presentazione alle sue mostre”.

Se dovesse girare in Liguria, i primi tre posti che le vengono in mente.
“Un paesaggio di colline e mare visto dai sentieri sopra Cavi di Lavagna. Un paesaggio di Chiavari visto dalla salita delle Grazie, con il lungo costa a mare, dopo la Colonia Fara. Il corso del fiume Entella, lungo il tratto compreso fra Ri-basso e la Foce”.

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