Lo scandalo che ha colpito Facebook in queste ultime settimane a seguito dell’inchiesta del giornale britannico ‘The Guardian’ merita un momento di riflessione e di approfondimento. Cerchiamo intanto di capire che cosa è successo davvero, e poi qual è il ruolo di Facebook nella vicenda e se l’azienda ha effettivamente delle responsabilità sull’accaduto.
Perché tutto il mondo parla di Cambridge Analytica? Cos’è questa società e cosa ha fatto per essere tanto discussa?
Partiamo dalle origini: Cambridge Analytica nasce dall’incontro di Alexander Nix, CEO di SCL Group (società che si occupa da anni di consulenza per le campagne elettorali) e Steve Bannon, capo editore del sito di informazione di estrema destra ‘Britebart’ e in seguito nominato Chief Strategist della campagna elettorale di Trump alle Presidenziali del 2016.
Bannon crede che per cambiare la politica occorra cambiare la cultura, e che per cambiare la cultura occorra individuare le unità culturali per poi influenzarle. Da qui nasce l’idea di associare la pratica del microtargeting, già nota e diffusa nelle campagne politiche, alle teorie psicologiche e comportamentali.
In poche parole, l’idea era quella di riuscire ad individuare determinati profili psicologici (gusti, abitudini, passioni, hobbies etc) in una specifica zona geografica, e in base ai profili individuati riuscire a indirizzarli con messaggi precisi. Per fare questo, Cambridge Analytica aveva bisogno di due cose: soldi e dati. Per i primi, Bannon porta Nix e soci a Manhattan, dal miliardario Robert Mercer (che ha fatto fortuna con il trading algoritmico, pertanto mastica la materia). Mercer capisce subito la potenzialità di costruire un algoritmo che sia in grado di individuare specifici profili psicologici e comportamentali e indirizzarne le scelte.
La società viene finanziata da Mercer con 15 milioni di dollari: nasce cosi Cambridge Analytica.
Per quanto riguarda i dati, il giovanissimo data scientist Christopher Wylie (gola profonda per il ‘Guardian’ nell’inchiesta di questi giorni ) trova la soluzione grazie ad un accademico dell’Università di Cambridge, Aleksandr Kogan.
Kogan porta in dote un interessante tesoretto: per scopi accademici, aveva realizzato un’applicazione che si chiamava ‘thisisyourdigitallife’, in grado di produrre profili psicologici in base alle attività online dell’utente. Circa 270mila persone si iscrissero all’applicazione di Kogan utilizzando Facebook Login, accettando quindi di condividere alcune delle loro informazioni personali. All’epoca Facebook permetteva ai gestori delle applicazioni di raccogliere non solo i dati della persona che si iscriveva, ma anche di tutti i suoi amici, senza che questi ne fossero a conoscenza. In seguito Facebook valutò che la pratica fosse eccessivamente invasiva e cambiò il suo regolamento, ma ormai era fatta: con 270mila iscritti, Kogan aveva in mano i dati di 50 milioni di profili.
Cambridge Analytica è cosi riuscita a costruire gli algoritmi di profilazione degli utenti, a tracciarne i comportamenti, a creare dal nulla i contenuti (falsi) da iniettare nel sistema, a indirizzare contenuti diversi a target diversi.
E Facebook?
Facebook è sicuramente rea di aver avuto in passato un sistema di concessione dei dati a maglie troppo larghe, che infatti è stato cambiato in seguito e che per ammissione della stessa società di Zuckerberg non era tutelante nei confronti degli utenti.
Inoltre, il controllo sulla diffusione illegale dei dati sembra non essere stato né celere né particolarmente accurato (Kogan ha infranto, tutto sommato indisturbato, i Termini e le Condizioni di utilizzo dei dati raccolti, vendendoli ad una terza parte).
Al di là di questo, il punto su cui concentrare la propria attenzione è forse un altro: quanto successo non si discosta molto da quanto Facebook fa ogni giorno con i suoi clienti e che è la base fondante del suo modello di business. Facebook raccoglie grandi quantità di dati e effettua profilazioni sui suoi utenti per poi rivendere i dati aggregati ai suoi clienti, e tutto questo con il nostro consenso.
La domanda pertanto è: perché Facebook sì e Cambridge Analytica no? Chi ci garantisce che Facebook proteggerà tutti i nostri dati da abusi e usi illeciti effettuati da Facebook stessa?
E’ importante ricordare che tutte le pratiche raccontate in questo articolo rientrano nella legalità, e forse questo è l’aspetto più inquietante.
Siamo quindi di fronte ad un ritardo culturale grave che colpisce due soggetti:
- i governi, incapaci fino ad ora di legiferare su questi temi e stabilire che cosa è lecito e che cosa invece minaccia i nostri sistemi democratici.
- l’utente, che utilizza i social network senza essere completamente consapevole delle responsabilità e delle conseguenze che questo comporta e delle manipolazioni alle quali può essere soggetto.
Ciascuno di noi può ingenuamente credere di essere in grado di difendersi dai messaggi promozionali che mirano ad orientare i suoi acquisti: in fondo, dei suoi soldi ognuno può fare ciò che vuole. Ma di fronte all’evidenza di come la manipolazione delle opinioni possa influenzare pesantemente, attraverso le scelte elettorali, il futuro di tutti i cittadini e non solo di coloro che si sono lasciati manipolare, la situazione è diversa. A questo punto dovrebbe scattare, attraverso l’informazione e la consapevolezza, una sorta di reazione immunitaria del sistema democratico, unica vera garanzia che abbiamo nei confronti del virus che ci sta infettando, e che già si è fatto sentire anche in elezioni a noi molto più vicine.
Prima di tutto questo, Mark Zuckerberg pensava di proporsi come il prossimo presidente degli Stati Uniti. Adesso forse non sarà più così facile… oppure sì?