di ANTONIO GOZZI
La riflessione contenuta in questo articolo, che è di mia esclusiva responsabilità, nasce da un dialogo pre-natalizio che ho avuto la fortuna di avere con sua Eccellenza il Vescovo di Chiavari Monsignor Giampio Devasini.
Il tema della riflessione è un po’ filosofico, e cioè il rapporto tra la visione, l’ideale, la ‘profezia’ come la definiscono i cristiani, e il senso della realtà, o realismo, che ci aiuta a definire, analizzare e affrontare i problemi quotidiani e a cercare di risolverli.
Intendiamo per ‘visione ideale’ o ‘profezia’ la volontà di costruire un mondo migliore, liberato dal male, in cui non ci siano ingiustizie e violenze e in cui anche i più deboli possano vivere dignitosamente.
Questo ideale di liberazione è comune al pensiero laico e a quello cristiano, ed anzi costituisce molto spesso terreno di dialogo, confronto e convergenza tra uomini di formazione e matrice culturale differenti, come è stato in occasione del dialogo tra Monsignor Devasini e il sottoscritto.
Intendiamo invece per ‘realismo’ la capacità di guardare la realtà in faccia per quello che è, piaccia o non piaccia, di comprenderne il significato e le contraddizioni per riuscire a gestirne i passaggi faticosi e delicati che quotidianamente si presentano, cercando soluzioni che magari non sono l’ottimo ma rappresentano comunque un passo in avanti.
La domanda che si vuole porre alla vostra attenzione è la seguente: la visione ideale e l’aspirazione a un mondo migliore (la profezia) sono incompatibili con l’agire quotidiano e con i suoi inevitabili compromessi basati sul senso della realtà?
Io penso francamente di no.
Spesso la negazione della compatibilità tra profezia e realtà è l’impostazione di chi ha un approccio ideologico ed estremista della storia, di chi condanna con furore e sdegno ogni compromissione con il ‘reale’ operata da quanti, invece, mettono le mani nel fango tutti i giorni perché sono immersi nella vita reale.
Nel secolo scorso, ad esempio, i movimenti di estrema sinistra e sedicenti ‘rivoluzionari’, talvolta poi sfociati nel terrorismo e nella lotta armata, hanno sempre condannato e irriso gli sforzi riformisti delle socialdemocrazie che all’affabulazione astratta e ideologica hanno sempre preferito ogni pratica volta a far avanzare i diritti e le condizioni di vita dei più deboli e disagiati.
Una strategia, quella socialdemocratica, basata sulla fatica quotidiana dei piccoli passi, degli avanzamenti progressivi in campo politico, economico e sociale; una strategia che ha però saputo creare nel secondo dopoguerra in Europa il sistema democratico, civile e di welfare più avanzato del mondo.
Una pratica volta al miglioramento continuo delle condizioni dei più deboli sfruttando le economie di mercato per tutto ciò che di buono possono dare ma al contempo mitigando gli eccessi del capitalismo più aggressivo e selvaggio. Una visione che ha avuto tanti ‘profeti’, i quali non solo hanno annunciato il messaggio ma sono stati capaci di operare concretamente per realizzarlo.
Tra i più importanti profeti di questa visione c’è il grande economista e filosofo inglese John Maynard Keynes, probabilmente l’economista che ha lasciato il maggior segno nella concreta vicenda del ’900. Ciò grazie alla sua opera teorica, che ha ispirato politiche di intervento straordinario dello Stato nell’economia per uscire dalla Grande Depressione del 1929 mediante il sostegno a investimenti e occupazione; ma anche grazie alla sua azione concreta di grand commis della Gran Bretagna: si pensi alla creazione del nuovo sistema monetario internazionale basato sul dollaro creato nel 1945 a Bretton Woods. Keynes nel 1930 in una conferenza a Madrid così concludeva, con commovente idealismo, la sua lezione dal titolo ‘Sulle prospettive economiche per i nostri nipoti’: “…Vedo quindi gli uomini liberi di tornare ai principi più solidi e autentici della religione e delle virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole… Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile… Ma attenzione, il momento non è ancora giunto”.
Illusioni di un grande intellettuale formato al socialismo fabiano e non marxista?
No, a mio giudizio: piuttosto l’anelito a lavorare per il meglio e l’augurio di tempi di un’umanità migliore.
Il tema del rapporto tra ‘profezia’ e realtà si è riproposto negli ultimi mesi nel quesito sulla liceità dell’uso della forza a proposito degli aiuti occidentali, anche in armi, all’Ucraina, stato libero e sovrano invaso dall’esercito russo e martoriato da bombardamenti ed eccidi diretti anche sulla popolazione civile.
Gli aiuti occidentali, sopra tutti quelli degli Usa e della Gran Bretagna, hanno consentito all’Ucraina di resistere all’aggressione russa, di difendere il suolo patrio e di evitare una capitolazione che Putin aveva erroneamente previsto come raggiungibile in pochi giorni.
Nei confronti della resistenza del popolo ucraino e della guerra di difesa che si combatte da ormai quasi un anno si sono ascoltate, specie in una fase iniziale, voci di settori importanti del movimento pacifista che di fatto agli ucraini non proponevano altro che una resa senza condizione all’invasore.
Ho definito in altri editoriali di ‘Piazza Levante’ questi pacifisti i ‘pacifisti della resa’ e cioè coloro che rifiutano sempre e in ogni situazione l’uso della forza. E tutto ciò per evitare ‘mali peggiori’.
Voci di questo tipo si sono sentite anche in molti ambienti cattolici, almeno fino a quando Papa Francesco con una coraggiosa lettera al popolo ucraino (vedi editoriale di ‘Piazza Levante’ dell’1 dicembre 2022) ha preso una posizione forte e chiara a sostegno della lotta di quel popolo a difesa della Patria, e di condanna senza se e senza ma dell’invasione e delle violenze perpetrate dalla Russia.
Le voci dei ‘pacifisti della resa’ fino a quel momento avevano sì condannato l’aggressione russa, ma in definitiva vedevano e ancora vedono la resistenza ucraina, sostenuta dagli aiuti in armi dell’Occidente, come inutile e sbagliata. Proclamano la necessità di un negoziato a prescindere, senza specificare cosa un paese aggredito nella sua popolazione civile e nella sua integrità territoriale debba negoziare, se non la fine immediata dell’aggressione e il ritiro dell’invasore.
Abbiamo detto, e lo ripetiamo, che questa posizione non è neppure in linea con la dottrina della Chiesa, la quale in diversi documenti e posizioni riconosce in determinate condizioni il diritto alla legittima difesa, anche in armi. Ci siamo dilungati su ciò nel precedente editoriale citato.
Ciò che interessa qui sottolineare è che mantenere il riferimento alla guerra di difesa non significa negare la dottrina della pace (la profezia) ma invece fornire un’indicazione etica precisa ai governanti, nei casi particolari in cui i popoli siano oggetto di un’aggressione ‘durevole, grave e certa’.
Significa che anche i cristiani si devono misurare con la realtà forti della loro teoria della liberazione dal male ma anche capaci di gestire le difficili contraddizioni della realtà.
Per diversi aspetti richiamare la legittimità del ricorso alla lotta armata contro sistemi e violenze totalitarie, e il suo inequivocabile fondamento etico, significa richiamare l’obbligo di giustizia nel proteggere gli oppressi e gli indifesi anche con le armi nel caso in cui tutti gli altri mezzi si siano rilevati inefficaci. È un’affermazione realistica e concreta nella quale in molti casi molti cristiani si sono ritrovati.
È il caso, per noi italiani, della Resistenza e della lotta al fascismo e al nazismo.
“L’unica guerra giusta, se guerra giusta esiste, è la guerra partigiana” come scriveva don Lorenzo Milani.
Echi di questo tipo si trovano in posizioni prese da Papi come Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Papa Montini afferma che la lotta armata è possibile “solo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese” (Populorum Progressio, 31).
Papa Wojtyla afferma che “… quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l’aggressore…”. (Pace in terra agli uomini che Dio ama, 1° gennaio 2000).
Vorrei riprendere l’espressione utilizzata da Papa Giovanni Paolo II “iniziative concrete” perché qui sta il punto, è qui il rapporto tra profezia e realtà.
Credo, ma lo dico sommessamente da laico, che pochi Papi recenti siano stati così profetici come Papa Wojtyla. Eppure lo sforzo appare quello di tener conto della realtà e di intraprendere iniziative concrete perché in molti casi le parole e le posizioni di principio non bastano e non servono.
Un grande insegnamento. Il senso di realtà invera la profezia che altrimenti risulta vuota ed astratta.