di ANTONIO GOZZI
Più volte ho scritto su queste pagine dell’importanza dell’industria per il nostro Paese. Sono giunto ad affermare in varie sedi che “è l’industria il futuro dell’Italia”. Molti mi contestano: “Dici così perché sei un industriale abbastanza importante e parli nel tuo interesse: adesso poi vuoi anche fare il Presidente di Confindustria…”.
Come ho più volte chiarito in questi giorni non voglio fare il Presidente di Confindustria; ma mi interessa spiegare, e lo farò con questo intervento, perché l’industria italiana è strategica non solo per gli imprenditori ma per il futuro, la crescita, il benessere dell’Italia e degli italiani, ed è l’arma più importante che il nostro Paese ha per rimanere tra le nazioni più avanzate del globo.
Voglio parlare di industria come bene comune, dunque, e strumento principe per ottenere risultati in campo economico, tecnologico, sociale, culturale e ambientale. Industria come mezzo per trasformare le idee in progetti e i progetti in realizzazioni. Industria come mezzo per far succedere le cose, per passare dalle parole ai fatti.
L’Italia ha un estremo bisogno di concretezza e di modernizzazione. I proclami e gli slogan della propaganda politica non servono a nulla, ed anzi nell’assenza di realizzazioni concrete generano delusione e diffidenza nei confronti della democrazia. Legare impresa e democrazia, come ha fatto Carlo Bonomi nella sua ultima Assemblea da presidente di Confindustria, non è vana retorica ma un’affermazione pregnante che sottolinea il ruolo dell’industria non solo come fattore di crescita economica ma anche come mezzo di inclusione sociale e culturale.
Prima di passare a considerazioni più ‘filosofiche’ un po’ di numeri aiutano ad esprimere meglio questi concetti.
In base agli ultimi dati disponibili il valore della produzione dell’industria italiana nel 2019 è stato di 1.138,6 miliardi di euro. Il dato del valore aggiunto è più aggiornato e riguarda il 2022, anno in cui il valore aggiunto è stato pari a 351,1 miliardi di euro. Gli occupati nel 2022 erano circa 4 milioni e 259 mila.
Ciò significa che il peso diretto dell’industria italiana sull’economia nazionale è pari al 33,4% in termini di valore della produzione, al 20,5% in termini di valore aggiunto e al 16,7% in termini di occupati. Detto in maniera semplificata: l’industria pesa nell’economia italiana per un terzo della produzione, per un quinto del valore aggiunto e per un sesto degli occupati.
Questi valori non tengono conto dell’enorme indotto che l’industria attiva poi negli altri settori, dall’agricoltura ai trasporti agli altri servizi.
Se ci concentriamo sul solo settore manifatturiero dell’industria, e quindi escludiamo l’industria estrattiva, elettricità, gas, acqua e rifiuti, le imprese manifatturiere nel 2019 (anno precedente al Covid e quindi non distorto dagli effetti della pandemia) erano in Italia 366mila, gli occupati 3 milioni e 809mila e il valore aggiunto ammontava a 250,2 miliardi di euro. Si tratta di numeri influenzati dal grande numero di piccole e piccolissime imprese presenti in Italia.
Si pensi che nel 2019 le imprese manifatturiere con meno di 20 occupati erano 336mila, impiegavano circa 1 milione 322 mila persone, con un valore aggiunto di circa 50 miliardi.
Le imprese piccole (con meno di 20 addetti) rappresentano quindi oltre il 90% delle imprese totali, oltre un terzo degli occupati totali e un quinto del valore aggiunto. Come abbiamo ricordato qualche settimana quello delle piccole imprese è un mondo a bassa produttività, con scarsi investimenti, che chiede modernizzazione. E ciò è testimoniato dal fatto che oltre i 4/5 del valore aggiunto manifatturiero italiano è generato dalle circa 29500 imprese con più di 20 addetti che costituiscono il nocciolo duro dell’industria italiana.
Ultimo elemento straordinario di performance del sistema industriale italiano è il suo fortissimo orientamento all’export. Nel 2022 le esportazioni dell’industria italiana hanno sfiorato i 600 miliardi di euro e il dato è impressionante perché praticamente riguarda il 50% del fatturato globale dell’industria.
Questo dato testimonia dell’eccellenza qualitativa e competitiva della nostra manifattura ma soprattutto costituisce un enorme aiuto che l’industria italiana dà alle sorti generali del Paese.
L’Italia infatti rispetto agli altri grandi Paesi europei, Germania e Francia in primis, è più debole dal punto di vista del debito pubblico che ormai si avvicina ai 3000 miliardi di euro ed è pari al 145% del PIL.
La percezione che l’estero ha di noi, della nostra economia, della nostra competitività è fondamentale perché una parte importante del nostro debito pubblico è sottoscritta da investitori esteri e la fiducia o meno nell’Italia si traduce in interessi più o meno alti che dobbiamo pagare a chi sottoscrive il nostro debito: il famoso spread.
Ebbene uno degli elementi fondamentali che in questi anni ha dato un’immagine positiva del nostro Paese, un vero e proprio biglietto da visita capace di indurre ammirazione e fiducia all’estero, è stata proprio la performance del nostro sistema industriale, i suoi straordinari risultati in termini di export di cui abbiamo poc’anzi esposto i numeri, la tenuta (resilienza come è di moda dire oggi) dimostrata anche nei momenti peggiori del Covid, il primato mondiale in moltissimi segmenti di prodotto.
Questa forza dell’apparato industriale italiano deriva da molti fattori.
Innanzitutto dalle caratteristiche morfologiche e dimensionali delle nostre imprese e dalla loro larghissima diffusione sul territorio. Il tessuto è fatto da moltissime imprese private di medio-grande dimensione: Mediobanca ne conta, e ne analizza i dati, circa 3500, di cui quelle propriamente industriali sono 2500. Queste imprese costituiscono il cuore pulsante dell’apparato industriale ed hanno ampiamente compensato, con la loro crescita, la diminuzione di importanza della grande impresa specie di proprietà pubblica.
Le grandi imprese pubbliche rimaste dopo la crisi del modello delle Partecipazioni Statali (Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri, Terna ecc.) sono comunque tutte grandi imprese di eccellenza che cumulano al loro interno know-how e management di primo livello e sono capaci di sostenere la competizione internazionale.
Le imprese private medio grandi rappresentano un traino anche per le piccole, che abbiamo visto essere moltissime in Italia, perché spesso le coinvolgono in catene di subfornitura e logistiche che ne migliorano la performance.
Le imprese medio grandi italiane sono estremamente diversificate in molti settori merceologici, dalla meccanica e meccatronica alla chimica e farmaceutica all’acciaio, dalla carta alla ceramica al vetro, a tutti i settori style-based come moda, mobili, oggetti di design, cantieristica di lusso ed altro ancora, i cui prodotti e marchi, il cosiddetto made in Italy, rappresentano iconicamente l’Italia nel mondo.
Le filiere manifatturiere protagoniste del made in Italy stanno a valle dei settori di base (acciaio, chimica, cemento, carta, ceramica, vetro, fonderie ecc.). Senza questi settori di base, che sono quelli per i quali la sfida della transizione è la più dura e difficile, non esisterebbero più neanche le filiere a valle.
Per questo sottolineiamo sempre che il sistema industriale italiano è un complesso organico e integrato e trova in questa caratteristica la sua forza e la sua eccellenza.