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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

Donald Trump e il ‘conservatorismo della rabbia’: l’azione politica oltre le accuse di razzismo

L’attuale presidente si pone come alfiere di un’America che si percepisce come dimenticata o più semplicemente non è più al centro dell’interesse dei politici
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump
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Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.

di MATTEO MUZIO *

Dieci anni fa, il massacro perpetrato da Dylann Roof in una chiesa afroamericana di Charleston, in South Carolina, spinse l’opinione pubblica americana a riflettere sull’eredità confederata. Non era, come sembrava fino ad allora, un polveroso retaggio storico localizzato geograficamente, ma una fonte di odio razziale ancora ardente, così come lo era stato negli anni successivi alla guerra civile americana, avvenuta tra il 1861 e il 1865 tra il Nord libero e il Sud schiavista. 

Per anni la Confederazione meridionale ha goduto di un trattamento in guanti bianchi da parte dell’opinione pubblica e della storiografia ufficiale. Poi le ricerche accademiche degli ultimi cinquant’anni hanno ristabilito in parte la verità e questo è stato rispecchiato anche in film come Django Unchained, dove la crudeltà del sistema schiavista è raffigurata a tinte vivide. Forse perché quegli eventi li ha studiati alle scuole superiori, quando prevaleva ancora la vecchia visione, ma per Donald Trump gli ultimi saggi è come se non fossero mai stati scritti.

Per lui vale ancora l’idea che il Sud delle piantagioni meriti di essere onorato. Per questo ha espresso la sua volontà ben precisa di ripristinare i nomi delle basi delle forze armate coi vecchi nomi degli ufficiali confederati, tra cui la più importante è Fort Bragg, dal nome di Braxton Bragg, generale sudista peraltro nemmeno così brillante sul campo di battaglia. Quello che è peggio, è che vorrebbe anche ricostruire i controversi monumenti abbattuti in seguito alle proteste scatenate dopo la morte di George Floyd nel 2020. 

Ce n’è soltanto una e si trova nell’ex capitale sudista di Richmond, in Virginia, città al centro delle manifestazioni di cinque anni culminate nella rimozione della statua del capo delle forze armate confederate, il generale Robert E. Lee. Unica eccezione è la statua dell’ex presidente Jefferson Davis. Vediamo se darà seguito all’idea oppure è una sparata fatta per accontentare Bisogna dire che, quando Trump era ragazzo, le gesta di Lee venivano esaltate pubblicamente anche da un presidente centrista moderato e nient’affatto razzista come Dwight Eisenhower; perciò, è facile pensare che, come molti coetanei, abbia assorbito tali nozioni in modo inconscio. 

C’è però da notare come anche un discendente di schiavisti originario dell’Alabama come Mitch McConnell, ora senatore uscente del Kentucky, dopo anni passati a minimizzare il valore suprematista della bandiera confederata, da tempo sostiene che il tempo delle bandiere confederate è ormai passato. E nel 2020 il Mississippi, patria del già citato presidente sudista Davis e uno dei paesi dove la segregazione razziale ha resistito più a lungo, ha rimosso il famigerato vessillo dalla bandiera statale, con voto bipartisan e immediata firma del governatore repubblicano Tate Reeves

Perché invece Trump rianima la questione? Non solo per il voto di un’infima minoranza di razzisti nostalgici che avrebbe comunque, ma anche per una questione di linearità politica. Si è detto tante volte che Trump non è l’erede di un conservatorismo classico, reaganiano, difensore della libertà di parola a ogni costo, muscolare in politica estera e favorevole a una regolamentazione leggera per le imprese. Lui è l’erede del cosiddetto “conservatorismo della rabbia” che a fine anni ’60 trovò il suo alfiere perfetto in George Wallace, ex governatore dell’Alabama che si pose alla guida di un movimento nazionale che univa un operaismo di facciata a un risentimento razziale e sociale profondo. Come Wallace, forse andando oltre, Trump si pone come alfiere di quest’America che si percepisce come dimenticata o più semplicemente non è più al centro dell’interesse dei politici. Ecco che quindi la Lost Cause, la causa perduta dei presunti eroi confederati torna al centro della scena. E da decenni ormai, anche a causa dell’emigrazione dagli Stati del Sud, questi nostalgici sono ovunque. E la loro nuova “causa perduta” sono le elezioni rubate nel 2020, bufala che Trump ripete ad ogni piè sospinto per incendiare gli animi. E che serve a fidelizzare e ad alienare sempre più una base che perde contatto con la realtà, sul modello di quanto avvenne per quasi un secolo negli stati del Profondo Sud.

(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)

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