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Giovedì 4 dicembre 2025 - Numero 403

Atlantia, Ilva, Olimpiadi: le “balle spaziali” di Luigi Di Maio, ministro anti-industria… dello sviluppo economico

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La batosta elettorale delle europee (in un anno il M5S ha pressoché dimezzato il suo elettorato passando dal 32,7% al 17,1%, con una perdita in valori assoluti di quasi sei milioni di voti) ha aperto una gravissima crisi all’interno del Movimento. Il capo politico e vice-premier Di Maio è in grave difficoltà. Contestato dall’ala sinistra del Movimento (Di Battista e Fico), accusato di subire senza sosta l’agenda e l’iniziativa di Salvini e di aver sacrificato i valori dei 5S sull’altare delle poltrone di governo, è stretto nella morsa tra la realtà che non fa sconti, e impone scelte di governo pragmatiche, e l’ideologia confusa, declinista e anti-tutto di larghi settori del Movimento, che unita alla sovrana incompetenza rende tutto difficile. 

La reazione a questa situazione e il terrore di andare al voto fanno sì che il capo politico si rifugi nuovamente nella propaganda, nell’eterna campagna elettorale, sperando di guadagnare tempo e di recuperare qualche voto. 

A farne le spese è naturalmente il Paese, che vede un governo bloccato da veti incrociati su ogni cosa, quando invece la crisi economica in cui versa l’Italia obbligherebbe all’azione, alla concretezza e alla valorizzazione delle imprese e delle iniziative italiane e non la loro sistematica mortificazione. 

Nel disperato tentativo di sopravvivenza politica anche personale, Di Maio si aggrappa a due tratti distintivi della sua (in)cultura politica: il pregiudizio di fondo nei confronti dell’impresa e della libera iniziativa e le balle. 

Due esempi molto chiari al riguardo. 

Primo esempio, il pregiudizio anti-impresa. 

Negli ultimi giorni il sentimento anti-industriale di Di Maio si è manifestato con maggiore virulenza del solito. Il caso più clamoroso si chiama Arcelor-Mittal, la multinazionale indiana che ha rilevato lo stabilimento Ilva di Taranto e si è impegnata a bonificarlo come da contratto sottoscritto con lo Stato Italiano proprio nella persona del ministro Di Maio. 

Oggi Di Maio ha deciso di dichiarare guerra ad Arcelor-Mittal senza un apparente perché, cambiando con legge dello Stato (un articolo del famoso decreto crescita, votato inspiegabilmente anche dalla Lega) uno dei presupposti scritti nel contratto di vendita dell’Ilva e garantito da una legge precedente che aveva assicurato ai commissari pubblici prima, e agli amministratori privati poi, la protezione legale per tutta la durata del piano di risanamento (tre anni) per i reati ambientali compiuti prima del loro arrivo, ad esempio inquinamenti del suolo e bonifiche non fatte. 

È abbastanza comprensibile la domanda degli amministratori di Arcelor: perché dobbiamo pagare penalmente noi per reati commessi da altri mentre stiamo risanando il sito?

La domanda, logica in ordine a un così clamoroso voltafaccia (Di Maio ha cambiato le regole del gioco dopo 7/8 mesi dalla firma del contratto con Arcelor-Mittal) ha purtroppo una risposta disperante. 

Il M5S che a Taranto alle politiche dell’anno scorso aveva sfiorato il 50% dei voti, alle Europee dimezza, e scompare dal Consiglio Comunale della città. A Di Maio interessa solo questo. 

Sa benissimo che se Arcelor se ne va, probabilmente l’Ilva chiude, con la perdita di oltre 20.000 posti di lavoro complessivi, ma ciò non sembra preoccuparlo più di tanto perché allora si potrà finalmente avviare quella particolare riconversione economica che il ministro pentastellato del Sud, Barbara Lezzi, ha individuato nel primato della miticoltura: cozze al posto dei coils. 

Non parliamo del caso Atlantia. A borse aperte, per far vedere che è capace di spararle più grosse del suo amico-rivale Di Battista, dice che Atlantia è ‘decotta’. Ora, Atlantia non è affatto decotta, ed è la prima volta che un ministro di un Paese del G7 punta a buttare giù il titolo di un’impresa nazionale, senza neanche saper distinguere tra Aspi che è la concessionaria autostradale e Atlantia che invece è una multinazionale di proprietà italiana presente in 27 paesi del mondo con 31.000 dipendenti. 

Il sentimento anti-industriale che agita Di Maio evidentemente è più forte delle normali cautele che un uomo di governo dovrebbe osservare. 

Secondo esempio: le balle. 

La vicenda delle Olimpiadi invernali del 2026 ottenute dall’Italia grazie all’accordo Milano-Cortina e a un formidabile lavoro di squadra del Coni (Malagò) degli amministratori del Nord (Sala, sindaco di Milano, PD; Zaia, governatore del Veneto, Lega; Fontana, governatore della Lombardia, Lega; e Giorgetti, ministro dello Sport, Lega) ha evidenziato nuovamente le enormi difficoltà di Di Maio e del M5S. 

Subito dopo le imbarazzatissime congratulazioni di rito (i Cinque Stelle si erano opposti  fin da subito al progetto a livello nazionale e locale, con il rifiuto di Torino e della sua sindaca Appendino di far parte della partita ) sono incominciate le inevitabili polemiche sull’occasione perduta con il rifiuto grillino alla candidatura di Roma per le Olimpiadi 2024. 

Ha iniziato il presidente del Coni Malagò: “La sindaca Raggi nemmeno mi ricevette e non guardò il dossier”. La sindaca ha risposto dicendo: “Complimenti ai sindaci delle città vincitrici ma noi a Roma le Olimpiadi non potevamo permettercele”.

Perché “non potevano permettersele”? Qui iniziano le balle di Di Maio, che in aiuto alla Raggi dichiara: “Nessun giornalista ha evidenziato la profonda differenza tra quello che era il progetto Roma, a spese dei romani, e quello di Milano che non prevede un solo euro di spesa da parte della città”.

I fatti però hanno la testa dura e i dati smentiscono l’ennesima balla del vicepremier. Vediamo perché. 

Il costo dei Giochi nella capitale venne quantificato in 4 miliardi di euro. Di questi, 1,7 miliardi di dollari sarebbero stati messi a disposizione dal Cio (Comitato Olimpico Internazionale) come contributo a fondo perduto. Il governo (all’epoca era premier Matteo Renzi) avrebbe coperto la parte restante: 2,1 miliardi di euro in 7 anni dal 2017 al 2024, ovvero 300 milioni l’anno. 

Dunque l’affermazione fatta in quei giorni da Di Maio e Raggi, “progetto a spese dei romani”, è falsa. Nemmeno un centesimo di questo stanziamento sarebbe stato a carico del comune di Roma. Discorso molto diverso, ovviamente, per i benefici: 70mila posti di lavoro, di cui 17000 stabili e definitivi, più tutto l’indotto turistico che sarebbe andato a vantaggio della comunità romana (a gratis, come si dice da loro). L’università romana di Tor Vergata, applicando un modello econometrico della Banca Mondiale, ha calcolato che ci sarebbero stati benefici economici per oltre 7 miliardi di euro. Pur sottraendovi i costi di 4 miliardi (non sostenuti da Roma) sarebbero rimasti benefici netti per circa tre miliardi. 

Per teorici dell’analisi costi-benefici come i Cinque Stelle non c’è male. 

Come si può pensare che l’incompetenza e il pregiudizio anti-impresa siano le cifre principali del ministro dello Sviluppo economico del settimo Paese economicamente più importante del mondo ? Non si può. 

Un Paese con tante industrie e zero crescita non può permettersi un ministro del genere. 

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