di ANTONIO GOZZI
Poche settimane fa su queste stesse pagine mi ponevo l’interrogativo di come sia compatibile un recupero di competitività dell’Europa in una situazione nella quale:
- Abbiamo la più grave crisi demografica del mondo (stiamo invecchiando a ritmi mai visti e in molti Paesi, in primis l’Italia, la natalità sta diminuendo in maniera significativa);
- Abbiamo lanciato un programma di decarbonizzazione della nostra economia (green dea ) ideologico e costosissimo che di fatto per le nostre imprese costituisce un aggravio che le imprese concorrenti extra europee non hanno;
- Abbiamo un sistema di welfare unico al mondo per estensione e qualità delle prestazioni. “Per noi europei il mantenimento di elevati livelli di protezione sociale è un punto non negoziabile” ha detto Mario Draghi pochi giorni fa dal monastero di Yuste in Spagna.
Affinché la ricerca di idee e di politiche per il recupero di competitività, missione che la Presidente uscente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen ha affidato proprio a Mario Draghi (dal quale si attende un rapporto nelle prossime settimane) non resti un mero esercizio intellettuale ma si trasformi in fatti concreti occorre una svolta “radicale” soprattutto dal punto di vista culturale e di identificazione degli obiettivi prioritari.
Se si ragiona così c’è un solo modo per tenere insieme da una parte il tremendo bisogno di ritornare ad essere un’economia non in declino ma competitiva rispetto alle altre grandi aree del mondo, e dall’altra gli obiettivi di rilancio demografico, di decarbonizzazione intelligente e di welfare agli attuali livelli; e questo modo, detto in una parola, è crescere.
La crescita deve diventare la priorità assoluta di tutte le politiche europee.
Questo però non è affatto scontato. Veniamo infatti da un periodo storico nel quale nel nostro continente usare il termine “crescita” è stato molto difficile.
È stato difficile perché le politiche dell’Unione sono state lungamente dominate dall’ossessione del debito e da un’attitudine di austerità finanziaria e di rigidi equilibri di bilancio imposta dalla Germania e dagli altri paesi nordici (i così detti “frugali”); ed è stato difficile anche perché vaste correnti culturali, impregnate di declinismo e di estremismo ambientalista, che si sono impadronite di parti della politica e della tecnocrazia, il termine “crescita” lo hanno quasi criminalizzato.
Per molto tempo infatti questo termine è stato sinonimo di distruzione della natura e dell’ambiente, di inquinamento, di causa del climate change e di sfruttamento delle persone, portando nei casi più estremi alla teorizzazione di una “decrescita felice”.
Scopriamo oggi invece che l’unico modo per affrontare, con una qualche speranza di successo, la mission impossible che ci sta davanti è proprio il rilancio e il sostegno, in ogni modo e con ogni mezzo possibile, della cultura della crescita che vede nelle imprese, nell’industria e nella tecnologia gli strumenti principali.
Il tema, come detto, è innanzitutto culturale e di narrazione. Al riguardo colpiscono positivamente le affermazioni e il programma del leader del Labour inglese Keir Starmer, che i sondaggi danno vincente in larga misura nelle prossime elezioni del Regno Unito.
“Creare ricchezza è la priorità numero uno. La crescita è il nostro core business, il fine e il mezzo per un rinnovamento nazionale”. “Il mandato che cerchiamo per la Gran Bretagna in queste elezioni è per la crescita economica. Questo changed Labour ha un piano per la crescita, siamo pro business e pro lavoratori. Siamo il partito della creazione di ricchezza”.
E ancora: “Alcuni dicono che come far crescere l’economia non è una questione centrale, che il punto non è come si crea ricchezza ma piuttosto come si tassa, come si spende, come si divide la torta. Voglio essere chiaro: il mio manifesto rappresenta un rifiuto totale di questa teoria perché trasformando la natura del mercato del lavoro, cambiando le infrastrutture che sostengono gli investimenti della nostra economia, riformando la pianificazione, sbloccando il potenziale di miliardi e di miliardi di sterline in progetti pronti a partire allora si che si fa molto di più per le nostre prospettive di crescita a lungo termine”.
Un’impostazione alla Blair che colpisce e fa riflettere sul fatto che viene da un Paese che per primo ha vissuto i drammi della deindustrializzazione e dell’illusione di un capitalismo tutto finanza e servizi, e dal leader di un partito che ha conosciuto negli ultimi dieci anni l’estremismo ideologico, ambientalista, antisemita di Corbyn, la cui guida ha portato il Labour a perdere tutto quello che c’era da perdere.
Individuare nella crescita, nel business, nelle imprese l’unico vero strumento per promuovere l’inclusione sociale, ridurre le diseguaglianze, condurre una transizione ecologica razionale e pragmatica per un esponente della sinistra politica è un atto di coraggio che va sottolineato e apprezzato.
La crescita non è né di destra né di sinistra. È l’unico mezzo che abbiamo per combattere il declino europeo e la miseria che ne seguirà se non si cambia strada. Starmer l’ha capito e gli inglesi, almeno a giudicare dai sondaggi, anche.
Purtroppo la Gran Bretagna non è più in Europa per colpa dell’azzardo guascone di Cameron che non potrà mai essergli perdonato.
Avremmo tanto bisogno, nell’Europa di oggi e di domani, del pragmatismo e dell’atlantismo senza se e senza ma degli inglesi. Avremmo tanto bisogno di qualcuno capace di educare quei vasti settori delle sinistre europee che sbandano sull’Ucraina indugiando sul pacifismo della resa, che inseguono gli obiettivi irraggiungibili del green deal fregandosene di quello che succede alle imprese e agli operai, che non colgono la sfida esistenziale che il nostro continente vive in preda a nuove dipendenze (dipendenze generate anche da una transizione gestita dall’Europa in maniera insensata) e che pensano solo ai diritti e non anche ai doveri.
Non ci si deve vergognare di parlare di crescita e di provare a crescere. Non ci si deve vergognare di fare impresa, business, industria, tecnologia perché questo è l’unico modo per cercare di recuperare il tremendo gap che abbiamo nei confronti degli Usa e della Cina, e che domani avremo anche nei confronti dell’India.
Draghi, giustamente, ha parlato in Spagna del gap europeo sulle nuove tecnologie e sulla digitalizzazione, ma questo non basta. Bisogna favorire in ogni modo l’iniziativa privata, la libera intrapresa, la formazione del capitale umano e la difesa dell’industria; di tutta l’industria, anche quella più tradizionale e di base, che c’è e che va protetta dai venti di una globalizzazione e di una transizione non governate che la vogliono spazzare via. Draghi riconosce che la manifattura, in particolare quella italiana, non ha un gap di competitività e di produttività. Il recupero di produttività va ricercato nei servizi e nella pubblica amministrazione, fondamentali per la competitività generale.
Riportare l’industria al centro dell’agenda europea significa questo.