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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

Democratici in ordine sparso: dopo la sconfitta di novembre il partito è ancora sotto shock 

Il fatto che Donald Trump abbia prevalso anche nel voto popolare, che i dem pensavano fosse loro per diritto quasi divino, ha lasciato quasi immobile la leadership congressuale del partito
Ken Martin, eletto presidente del Comitato Nazionale del Partito Democratico
Ken Martin, eletto presidente del Comitato Nazionale del Partito Democratico
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Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.

di MATTEO MUZIO *

Il partito democratico, nonostante alla fine i risultati delle scorse presidenziali di novembre abbiano restituito una vittoria di misura ai repubblicani, è ancora sotto shock. Il fatto che Donald Trump abbia prevalso anche nel voto popolare, che i dem pensavano fosse loro per diritto quasi divino, ha lasciato quasi immobile la leadership congressuale del partito per almeno due settimane dopo l’inaugurazione del tycoon, per la seconda volta di ritorno alla Casa Bianca.

Poi il 1° febbraio c’è stato un primo momento di risveglio: l’elezione di Ken Martin a nuovo presidente del Comitato Centrale Democratico. Funzionario di carriera proveniente dalla guida del partito in Minnesota, ha poco interesse a promuovere l’inclusività a tutti i costi e molto interesse a vincere costi quel che costi. Nel periodo in cui ha guidato i dem a livello statale, Martin non ha mai perso, nonostante lo stato somigli molto al vicino Wisconsin: con un’alta percentuale di bianchi e con molte aree economicamente depresse e rurali. Eppure, dal 2011 i repubblicani sono rimasti sempre a secco. Mai nemmeno una vittoria, quasi fosse una California più fredda.

Il metodo di Martin è stato brevemente riassunto con “io tiro i pugni, così chi si candiderà può anche volare alto”. S’intende quindi che curerà la raccolta fondi e le campagne elettorali sul campo, che si preannunciano estremamente pervasive anche in stati dove si tende a perde, come l’ultraconservatore Tennessee, citato dallo stesso presidente dem nel discorso di investitura. Al Congresso invece la situazione appare ancora più sfumata: nelle prime settimane i dem stavano lavorando come se di fronte a loro ci fosse un repubblicano rispettoso delle norme e della Costituzione. 

Dalla base sono arrivate chiamate e inviti a ripensarci e a combattere più duramente: la strategia “prendiamo Trump in parola e cerchiamo di spremere il meglio” non sembra funzionare, specie mentre Elon Musk e il suo team sta conducendo una guerra informale a diverse agenzie federali senza aver ricevuto un preciso mandato elettorale né essere a capo di nessuna task force con poteri ben definiti. Quindi si combatte, ma come? Secondo il senatore delle Hawaii Brian Schatz, bisogna combattere punto su punto sia al Congresso che nelle piazze, senza rimanere sempre con l’occhio sui sondaggi. Così, quando un intervistatore gli ha chiesto perché lui insieme ad altri suoi colleghi stesse andando sotto l’agenzia dell’UsAid, responsabile degli aiuti umanitari verso l’estero, nonostante il suo operato sia mediamente impopolare, Schatz ha risposto seccamente “Dovremmo lasciarli fare in attesa della battaglia migliore da combattere? Per favore, risparmiatemi la predica”. 

Un atteggiamento contrario invece è quello del suo collega John Fetterman, che si appresta a fare da nuovo Joe Manchin: un politico centrista aperto al dialogo che però, allo stato attuale, rischia di non essere rieletto nel 2028 e certo non gli sta guadagnando nuove simpatie. C’è un’altra arma che i dem sembrano voler usare: quella di costringere l’amministrazione ad andare verso un nuovo shutdown a metà marzo, del quale sarebbero ritenuti responsabili, dato che l’ala iperliberista del Freedom Caucus repubblicano chiede tagli alla spesa pubblica generalizzati e massicci che ben difficilmente potrebbero essere digeriti dai deputati residenti nei distretti in bilico tra dem e repubblicani. In particolare, alla Camera, il leader dem Hakeek Jeffries vuole sfruttare la fragilità dei numeri repubblicani (218 deputati su 4353) per portare a termine imboscate che attraverso l’uso sapiente dei franchi tirati (sempre presenti nelle fila repubblicane nonostante la presenza di un capo indiscutibile come Donald Trump) potrebbe creare molti mal di testa. E infatti, a ben guardare, le iniziative legislative dei repubblicani in quasi un mese consistono in poco o nulla, se non provvedimenti di bandiera come la cancellazione dei due processi di impeachment a Donald Trump, che peraltro non sono nemmeno usciti dalle commissioni competenti. Al momento però, dato l’ampio uso dei decreti esecutivi del presidente, la battaglia si sposta verso i tribunali federali, dove al momento i ricorsi legali stanno cercando di stoppare i provvedimenti più controversi, primo tra tutti la cancellazione dello ius soli che dovrebbe richiedere un emendamento costituzionale apposito. Per questo i dem lo scorso 10 febbraio hanno costituito una task force di risposta rapida al blitzkrieg legislativo di Trump, presieduta dal deputato del Colorado John Neguse, che si propone di rispondere colpo su colpo: nelle corti, nelle piazze e al Congresso, dove possibile.

E proprio la giustizia sta spingendo tra le braccia dei repubblicani un esponente politico come Eric Adams: il sindaco di New York, sotto processo per aver ricevuto dei finanziamenti indiretti da parte di un’entità vicina al governo turco, si sta gradualmente avvicinando al tycoon per ottenere la salvezza prima di entrare in aula e il dipartimento di giustizia ha chiuso arbitrariamente i casi contro di lui, portando alle dimissioni dei procuratori inquirenti. Un caso che dimostra come questa volta il mondo progressista americano non possa attendersi uomini della provvidenza come per un periodo è sembrato anche lo stesso Adams, visto come un giusto mix di sinistra e rispetto delle forze dell’ordine.

Oggi invece somiglia molto a un suo predecessore come Rudy Giuliani, anche lui fortemente screditato agli occhi dell’opinione pubblica. Stavolta a combattere dovrà essere il partito intero e non si può lasciare nulla di intentato con un presidente che ormai non nasconde nemmeno lontanamente la sua volontà di accentramento del potere, tanto da invadere la competenza storica del Congresso di allocare i fondi. Un’idea controversa che ha le sue basi nel sinistro Project 2025, un vademecum di conquista del potere redatto lo scorso anni da diverse associazioni trumpiste sotto la guida dell’Heritage Foundation, un saggio con cui Trump aveva detto in campagna elettorale di non aver niente a che fare. 

(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)

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