di FABRIZIO DE LONGIS
Lo sviluppo delle valli a che punto è? Una domanda che pare trita e ritrita, dopo anni di progressivo abbandono dell’entroterra della nostra regione, ma che proprio per questo motivo risulta cruciale.
Si è parlato molto in questi anni, a seguito della ridefinizione degli stili di vita e dei modelli di lavoro conseguenti alla pandemia da Covid 19, di una progressiva riconquista dei territori abbandonati, che in Italia significano le province e, in macro, il sud del paese.
Per quanto riguarda il Tigullio questo passaggio non può che focalizzarsi nelle valli: territori che da tempo stanno fronteggiando difficoltà che si aggravano con la costante perdita di residenti e produttività economica.
Quella che nel modello dello smart working e nella riscoperta di alternative di vita sempre più a contatto con la natura e con una produttività a ritmi lenti e moderati, risulta un’occasione da non perdere. Oggi però si sta scontrando nell’entroterra ligure e in quello del levante genovese con specificità o con ostacoli che rischiano di essere pregiudiziali e contrastare un processo che permetterebbe di ripopolare le nostre colline.
È sempre più chiaro a chi ha contatto con l’entroterra che amministrare questi territori richieda sempre di più uno sforzo eroico, costruito su una dedizione quasi totale a un continuo contenimento di problemi che derivano, prima di tutto, dallo svuotarsi dell’antropizzazione: ossia dal troppo spesso vituperato intervento dell’uomo. Dalle piane con i muretti a secco che crollano, alle strade dissestate, alla presenza pervasiva di animali selvaggi, si sta ribaltando il fronte che in precedenza vedeva l’uomo troppo presente in questi territori.
Ma i conti in materia sembrano essere facili. Se si vuole riportare persone in queste aree, bisogna offrire loro le infrastrutture necessarie minime per vivere nei tempi di oggi. Nel più banale degli esempi, sembra impossibile proporre di lavorare in smart working da territori che non hanno una connessione Internet stabile e sufficientemente potente.
Proprio su questo tema la lingua sembra battere su uno dei denti più dolenti. Infatti i ritardi cronici del processo di digitalizzazione del paese, che non può che passare a priori sull’infrastruttura su cui questa digitalizzazione deve camminare, ossia la fibra, è oramai endemica e con un processo che si contraddice in termini.
A Genova, infatti, quando si parla della fibra nelle valli, viene subito citata Roma. “È competenza del governo”, questa la dicitura vera, ma forse un po’ troppo comoda.
I ritardi di Open Fiber esistono ovunque, ma questo sembra essere proprio il campo di gioco del governo regionale: sostanzialmente battere i pugni sul tavolo di Cassa Depositi e Prestiti, soggetto che controlla Open Fiber, e chiedere interventi puntuali. Il fatto è che nella programmazione di questi lavori, fin da subito si era generato un vulnus che rende ciò un lavoro arduo. La dicitura in cui si nasconde il tranello, ricordano da Regione Liguria, sono le così definite “aree a fallimento di mercato”, ossia quelle aree dove se non interviene lo Stato, un operatore privato non investirà mai perché non ha sufficiente ritorno. E qui si misura il termometro della buona politica. Sbagliata l’impostazione che ha visto partire i lavori prima per le aree a rendimento di mercato (con la scusante che si sarebbero servite prima più persone), e che ora ha messo un freno radicale allo sviluppo dei territori periferici, il rimedio sembra essere pretendere quello che è giusto da chi ne ha titolo per operare. Insomma, Genova chiama Roma, o almeno così dovrebbe essere con più incisività.
Pensare di popolare le valli liguri senza Internet, oggi, sembra impossibile, ammettono da Regione Liguria. Infatti vuol dire chiedere a dei cittadini di vivere e lavorare senza poter inviare delle mail lungo l’intera giornata, o avere abbastanza linea per effettuale delle videochiamate di lavoro o installare il Pos negli esercizi commerciali. Una condizione che, in prima battuta, obbliga ad un’arretratezza digitale e funzionale le stesse amministrazioni pubbliche, le quali non di rado si trovano nella condizione di avere convenienza a portare documentazione cartacea presso altri enti, rispetto ad inviarla digitale. Un’assurdità bella e buona.
Ma questa condizione di prima istanza odierna, si unisce a un insieme di depauperamento dei servizi che le valli stanno vivendo da anni. Come un sistema di trasporti pubblici sempre più ridotto (a vantaggio di una possibile gratuità cittadina di Genova sull’indirizzo di un territorio metropolitano, ex provinciale, che sembra fagocitare ancora una volta le risorse del levante), o di una sanità territoriale dichiaratamente improntata da Genova all’accentramento su grandi nosocomi. Per non parlare di temi quali la giustizia sempre più lontana e quindi anche costosa. In breve, non sembra proprio essere negli orizzonti di Genova riordinare un assetto provinciale e regionale che favorisca un ritorno nelle valli se non a un caro prezzo che molti cittadini non sono disposti a pagare.
Alcuni progetti sembrano essere in campo, come le programmazioni di fondi europei dedicati all’agricoltura e allo sviluppo economico, pesantemente rimpinguati dal Pnrr. Oppure l’inserimento di undici comuni della Val Fontanabuona (Avegno, Cicagna, Coreglia Ligure, Favale di Malvaro, Lorsica, Moconesi, Neirone, Orero, San Colombano Certenoli, Tribogna e Uscio), nella Strategia nazionale delle aree interne.
Su tutti questi interventi, le aspettative di Regione Liguria sembrano però essere indirizzate a una nuova progettazione. Il più importante intervento infatti è la futura dotazione di fondi destinati al re-insediamento di persone di origine ligure residenti nel mondo, con sostegno al loro ritorno nell’entroterra. Misura che dovrebbe partire a breve e chiamata Ma se ghe penso.
Nulla di tutto questo sembra però prevalentemente dedicato a fornire gli strumenti adeguati a un insediamento di vita immediato e con parametri oggi incentivanti. Almeno non quel tanto da far scegliere a famiglie, professionisti o commercianti e imprenditori di abbandonare le città e la costa, per insediarsi nell’entroterra. Insomma, perché una famiglia decida di spostarsi nel nostro entroterra, purtroppo, serve solo una radicale scelta di vita, invece di una potenziale alternativa. Servono degli eroi. E ciò non può essere la risposta adeguata.