di ALBERTO BRUZZONE
“Salviamo i negozi sotto casa”. In tempo di pandemia, soprattutto durante il lockdown ‘duro’, questo discorso si è sentito spesso, il commercio di prossimità è stato riscoperto, le piccole imprese familiari sono state nuovamente valorizzate. Eppure, trascorso il periodo peggiore, si è tornati a viaggiare nella direzione ormai tracciata da tempo, una direzione che penalizza i commercianti tradizionali e che premia invece le attività online.
Questo andamento è perfettamente rispecchiato dagli ultimi dati emessi dalla Camera di Commercio di Genova e relativi alle aperture e chiusure delle imprese con sede nel comune e nella provincia, per classe di attività del settore commercio, nel primo semestre 2019, 2020, 2021 e 2022. Si tratta di dati impietosi perché, a parte qualche categoria un po’ meno investita dai cambiamenti o dalla crisi, il saldo tra aperture e chiusure è nettamente a favore delle chiusure. Non è che il commercio sia sparito, non è che le persone non acquistino più. Semplicemente il commercio si è spostato altrove, si svolge sotto altre modalità e la pandemia ha notevolmente accelerato dei processi che erano già in atto a livello tecnologico.
Scorrendo le tabelle fornite dalla Camera di Commercio, si notano un calo dei negozi di frutta e verdura, di carni, di tabacchi, di tessili, di abbigliamento e di calzature. Vanno male anche ferramenta, edilizia e articoli per la casa, crollano a picco le edicole e le cartolerie. Tengono botta benzinai, negozi di computer e di telefonini, attività per gli animali e profumerie. In leggera risalita i libri e stabile il settore dei giocattoli.
E allora, dov’è che il commercio si è spostato? La voce più florida è l’ultima, nell’elenco della Camera di Commercio: ‘Commercio al dettaglio per corrispondenza o attraverso Internet’. Nel 2019 in provincia le attività iscritte erano 223, sono salite a 246 nel 2020, a 310 nel 2021 e a 347 nel 2022. A vendere su Internet e a spedire a casa, quindi, non sono solamente i colossi del web, ma anche le attività sul territorio, sicché il boom del commercio online (chiamato anche e-commerce) traina pure il settore delle spedizioni e della logistica.
A soffrire sono i negozi tradizionali: quelli di frutta e verdura scendono dai 712 del 2021 (sempre su base provinciale) ai 706 del 2022; le macellerie scendono da 447 a 436; gli alimentari da 201 a 192; i tessili da 179 a 169; ferramenta ed edilizia da 376 a 368; mobili e altri articoli per la casa da 380 a 365. Le edicole e le cartolerie sono i settori dove la discesa è più marcata: nel 2019 le attività iscritte erano 570, nel 2020 sono diventate 538, e ancora 513 nel 2021 e 493 nel 2022. Il settore libri è cresciuto invece dalle 60 unità del 2019 alle 62 unità del 2022: non è un salto significativo, ma almeno un certo tipo di editoria è ancora richiesto recandosi direttamente nei negozi. Un altro dato molto negativo, invece, è legato all’abbigliamento: nel 2019 i negozi iscritti alla Camera di Commercio di Genova erano 1106 in tutta la provincia, poi sono passati a essere 1062 nel 2020, 1036 nel 2021 e 1012 nel 2022.
Significativo un dato, quello relativo al commercio di medicinali: le attività sono salite da 319 a 324 tra il 2019 e il 2020 (ovvero quand’è iniziata la pandemia) e poi sono scese a 317 nel 2021 e a 308 nel 2022. Discorso analogo per le attività commerciali legate agli articoli sportivi: sono salite tra il 2020 e il 2021, ovvero quando sono iniziate a cadere le prime restrizioni più rigide (da 146 a 152) e poi sono scese a 148 nel 2022. I giochi sono rimasti stabili tra il 2019 e il 2021, con 98 attività iscritte, mentre sono scesi nel 2022 a 86 attività. Tutto l’andamento, in sostanza, è segnato da due fattori: il Covid da una parte e l’incremento del commercio online dall’altra. Una forbice che, stando alle previsioni, è destinata ad allargarsi. Un nuovo commercio è sempre più presente e purtroppo chi non riuscirà a stare sull’onda corre seriamente il rischio di finire alla voce ‘cessazioni’ in una delle prossime rilevazioni camerali. E questo nonostante le ripetute iniziative e i ripetuti appelli a servirsi nei negozi sotto casa.
Il vero disastro è per le edicole e le cartolerie, decisamente il settore più penalizzato dalla ‘rivoluzione’ di Internet. Secondo gli ultimi dati elaborati dallo Snag, ovvero il Sindacato Nazionale Autonomo Giornalai, le rivendite di quotidiani e periodici sono in Italia 24.596, ma di queste solo 6.435 sono edicole che vendono esclusivamente prodotti editoriali mentre altre 5.909 sono edicole che offrono pubblicazioni in misura prevalente, insieme ad altri prodotti di differente natura commerciale. Ci sono poi, soprattutto, 8.723 negozi che rappresentano punti vendita non esclusivi, come alcune tabaccherie, e i restanti 3.529 che sono i cosiddetti punti vendita promiscui, per cui la stampa è solamente un’attività secondaria (per esempio certi piccoli alimentari).
A marzo scorso però, rispetto allo stesso mese del 2021, sono le edicole esclusive ad essere scese maggiormente di numero (meno 540), seguite da quelle con attività prevalente in calo di 317 negozi.
Comunque, stando ai numeri ufficiali, esistono in Italia 2.466 comuni con una sola edicola ma ce ne sono altri 2.100 che non hanno neanche un negozio di giornali. Il rapporto più basso tra numero di edicole e numero di abitanti è al Sud, in particolare e nell’ordine in Sicilia, Basilicata e Calabria. Gli scenari migliori, di contro, spiccano in Liguria, Toscana, Sardegna ed Emilia-Romagna.
“La crisi del network retail è partita coi primi anni Duemila, quando nel 1999 c’è stata la liberalizzazione delle edicole e, subito dopo, con l’inizio del progressivo calo nelle vendite dei giornali”, sottolinea Andrea Innocenti, presidente dello Snag.
“Oltre alle chiusure, il mercato di oggi vede poi un altro trend significativo: la trasformazione delle edicole da esclusiva a chioschi ad attività prevalente, che cercano di offrire una gamma diversificata di servizi per sostenere le entrate. E questa evoluzione non è da criticare, purché i nuovi servizi integrino e non sostituiscano di fatto la vendita dei giornali, motivo per cui viene concesso l’utilizzo del suolo pubblico”. A conferma della tendenza prolungata delle chiusure, bastano i dati relativi agli ultimi anni che hanno visto i punti vendita scendere a quota 25.787 a marzo 2020 dai 28.577 di un anno prima, per arrivare a marzo del 2021 sui 25.680. Quindi, tra il 2020 e il 2019 hanno abbassato la saracinesca in 2.790. Un vero e proprio tracollo.