di ANTONIO GOZZI
In un mondo che cambia a velocità supersonica e nel quale l’Europa sembra destinata a una progressiva marginalizzazione geo-politica, economica e industriale porsi delle domande sull’Italia, sul nostro Paese e sul suo futuro può non essere un esercizio inutile.
Tutte le grandi nazioni in una situazione di rideterminazione degli equilibri mondiali sono chiamate a pensare al proprio futuro, ad una visione del ruolo che avranno nei prossimi decenni, ad individuare gli interessi nazionali irrinunciabili.
La retorica europeista ha fino ad oggi reso difficile questa riflessione come se le sorti magnifiche e progressive dell’Unione fossero scontate e con loro il superamento degli Stati Nazionali, dei loro interessi, culture, lingue, tradizioni e identità. Nella realtà delle cose l’asse franco-tedesco, con il forte peso degli interessi delle due grandi nazioni, ha guidato tutta l’evoluzione comunitaria portandola sino alla situazione attuale gravida di incertezze e di prospettive declinanti.
Chi si occupa di industria e di commercio internazionale sa da sempre che il posizionamento nel mondo globale dei singoli Paesi e la loro forza competitiva (non è l’Europa che esporta ma sono l’Italia, la Germania, la Francia ecc. e le loro imprese che esportano) ha a che fare con specificità, know how, vantaggi e differenziali legati a caratteristiche e originalità nazionali, ad una identità manifatturiera che nel nostro caso è iconicamente rappresentata dal “Made in Italy”.
Come insegna tutta la vicenda dei dazi il confronto internazionale, gli equilibri e gli scambi industriali e commerciali, la loro protezione e tutela diventeranno sempre più duri e impegnativi e ciò per l’emergere di nuovi attori economici e manifatturieri di enorme rilevanza (si pensi a cosa è successo con la Cina negli ultimi 20 anni e a che cosa succederà con l’India nei prossimi 20), e di tecnologie come l’IA sempre più disruptive.
Sarà una battaglia durissima, a tratti spietata, dalla quale emergeranno vincitori e vinti e l’Italia come settima economia del mondo e come secondo sistema industriale europeo dopo la Germania è destinata a parteciparvi a pieno titolo.
Prepararsi a questo confronto implica necessariamente una visione di sé, presente e prospettica e la capacità di una narrazione che non deve essere propagandistica ma, basandosi su dati di fatto e su numeri non opinabili, deve saper cogliere il profilo del Paese e della sua economia industriale cercando di valorizzare i punti di forza e gli asset materiali e immateriali che fino ad oggi ne hanno consentito la tenuta e il progresso.
Se si fa questo sforzo si scoprirà che l’Italia, forte della sua posizione strategica al centro del Mediterraneo e di fronte alle coste del Nord Africa, gode di un’empatia e un’affinità culturale unica per un paese occidentale con quei popoli e quelle nazioni. L’Italia è forte della sua manifattura super diversificata e super ricercata nel mondo, gode di un solido rapporto atlantico con gli USA e anche per questo può giocare un ruolo non soltanto economico ma anche geopolitico importante in futuro.
Purtroppo nel nostro Paese larga parte delle classi dirigenti, specie dopo la fine della prima Repubblica, e larga parte dell’opinione pubblica, indulgono in un pessimismo pre-concetto nei confronti dell’Italia con una lagna insopportabile: il Paese non può farcela, ha bisogno di un vincolo esterno che lo disciplini, perde produttività e quindi competitività a piè sospinto ecc. Una specie di denigrazione, spesso esterofila, che non è capace di riconoscere onestamente e senza accenti propagandistici la forza del Paese e delle sue grandi potenzialità e opportunità prospettiche.
Nelle ultime settimane sono ripresi a circolare sulla stampa editoriali e interventi che hanno rilanciato il vecchio cliché di un’Italia in declino irreversibile. Un cliché che – come dice giustamente Marco Fortis – non trova alcun riscontro nella realtà dello scenario post-Covid che ha visto l’Italia invece reagire meglio di altri Paesi in termini di crescita economica e occupazionale, di progressi nella competitività e nell’export, di mantenimento di un profilo rigoroso dei conti pubblici.
A questo pessimismo, spesso strumentale e coltivato dall’opposizione politica come unico strumento di propaganda, bisogna opporsi per spirito di verità e per la necessità di costruire una narrazione positiva del Paese basata sulla realtà e sui numeri. Si tratta di una narrazione particolarmente necessaria in questo momento di grandi cambiamenti. Tra l’altro il trend positivo di miglioramento del Paese, specie nella sua componente industriale, dura da almeno dieci anni e ha visto protagoniste politiche varate anche dai governi di centro-sinistra prima fra tutte l’Industria 4.0 di Renzi/Calenda.
Anche per questo bisognerebbe avere, al di là della polemica politica, una visione comune sui “fondamentali” perché questa visione comune sarebbe la più grande ricchezza del Paese.
Senza narrazione è difficile avere visione e senza visione non si costruisce il futuro dell’Italia.
Mi sono chiesto ad esempio quanto pesi sull’impressionante calo demografico, che per la verità non è solo italiano ma di tutto l’occidente, la visione pessimistica e angosciata di un’Italia che non ce la fa e non ce la può fare. Ma chi è disposto a fare figli in un Paese senza speranza? Oppure perché non devo fuggire all’estero dopo la laurea se il Paese è in un declino irreversibile?
Certo i problemi anche in Italia non mancano come ovunque.
Ma i dati, come più volte ricordato da queste pagine, smentiscono completamente la visione pessimistica e, se letti con attenzione, danno dell’Italia odierna un’immagine ben diversa e, almeno dal punto di vista economico e industriale, molto migliore di quella delle due nazioni più importanti, Germania e Francia.
Anche i media fanno fatica a dirlo. Persino le comunicazioni annuali del Governatore di Banca d’Italia Panetta sono state spesso lette in maniera unilaterale. Il Governatore non ha taciuto i problemi che esistono come in tutti i Paesi del mondo ma ha dato dell’economia italiana un’immagine sostanzialmente positiva. Questa immagine positiva, pur così autorevole, non è emersa dalle cronache.
Abbiamo richiamato recentemente, su queste pagine, un’ importante analisi del Centro Studi di Confindustria, Unveiling Italy’s Economic Potential, A Perspective on a Dynamic and Resilient Economy (L’inaspettato potenziale economico dell’Italia, una prospettiva su un’economia dinamica resiliente) dalla quale emergono dati importantissimi. Crescita del PIL degli ultimi anni superiore a quella degli altri Paesi europei, Crescita degli investimenti produttivi degli ultimi anni (grazie soprattutto al 4.0) superiore a quella di tutti gli altri Paesi europei, Sostenibilità ambientale dell’economia migliore d’Europa in termini di emissioni di CO2 e riciclo, Capitalizzazione delle imprese ormai allineate negli indici alle migliori situazioni europee, Mercato del lavoro e occupazione con i migliori dati di sempre sia in termini di occupati che di tasso di disoccupazione, Efficacia delle Riforme fatte specie quella della giustizia civile, Attrattività degli investimenti esteri che vede l’Italia in totale controtendenza alla drammatica caduta dell’attrattività europea, Produttività del sistema industriale che, contrariamente a quanto si continua a scrivere falsamente da molte parti, è al massimo dell’UE per quanto riguarda le aziende dai 10 ai 250 addetti ed è quasi allineata alla Germania per quanto riguarda le grandi imprese.
Ci sono due elementi di positività ulteriore e fondamentali che riguardano dati degli ultimi giorni di cui, inspiegabilmente si parla pochissimo, e questo sostanziale silenzio riguarda ahimè anche il nostro giornale, ‘Il Sole 24 ore’. Un negazionismo delle cose buone che sembra la cifra malata dei nostri giorni e a cui bisogna reagire tutti insieme senza distinzione di schieramento ma con spirito patriottico di concordia nazionale.
Ma ritorniamo alle due questioni fondamentali.
Il primo tema riguarda le esportazioni e commercio internazionale. L’Italia si è confermata negli ultimi anni come il quarto Paese più esportatore del mondo. Davanti al Giappone con cui la lotta per il quarto posto è sempre aperta!!! e dietro solo a Usa, Cina e Germania.
Esportiamo oltre il 50% del fatturato della manifattura (630 miliardi su 1200 di fatturato). In assenza di quelle che un tempo si chiamavano svalutazioni competitive della Lira, non più consentite dall’esistenza dell’Euro, questi numeri mostrano un vantaggio competitivo formidabile della nostra industria. Quali sono le sorgenti di questo vantaggio competitivo? La grande diversificazione della nostra manifattura articolata su molti settori di eccellenza (meccanica, meccatronica, farmaceutico, agro-alimentare, sistema moda, legno arredo ecc.); l’alta qualità del Made in Italy richiestissimo in tutto il mondo; la già ricordata alta produttività delle nostre imprese industriali, l’estrema flessibilità, adattabilità e intensità delle nostre imprese piccole e medie a controllo famigliare; un’innovazione di prodotti e di processi continua e incrementale che spesso non si rileva dalle spese di R&S.
Anche nei primi sei mesi del 2025 nonostante la vicenda dei dazi e la sua incertezza teniamo duro con la capacità di sostituire esportazioni calanti come quelle verso Germania e Francia in crisi con quelle in altri Paesi, Emirati, Arabia Saudita, Indonesia, Singapore, America Latina (a quando l’approvazione europea del Mercosur?).
Le spine alla nostra bilancia commerciale vengono solo dall’aggressività sempre maggiore delle esportazioni cinesi nel nostro Paese in tutti i settori e la difesa da questa invasione, estremamente pericolosa per la nostra manifattura, riapre la riflessione sui conflitti di interessi presenti al riguardo all’interno della stessa UE con una serie di Paesi con la Germania in testa che rifiutano sostanzialmente, come è stato sull’auto elettrica, ogni forma di protezione e di dazio contro la Cina.
L’altro dato fondamentale è quello relativo alla sostenibilità del debito pubblico e al miglioramento continuo dello spread sui bund tedeschi. Quando il Governo Meloni si è insediato lo spread ha toccato una punta di 250 basis point per un’iniziale diffidenza dei mercati finanziari nei confronti del nuovo Governo. Pochi giorni fa lo spread ha raggiunto gli 80 basis point, un record storico. I BTP decennali italiani ormai pagano interessi pressoché uguali ai corrispondenti titoli francesi e la Francia in questo momento sconta tassi più alti dell’Italia sulle scadenze quinquennali.
Il ‘Financial Times’ il 14 di agosto ha dedicato un lungo articolo a questa svolta dei mercati obbligazionari che premia l’Italia, evidenziando come “sta crescendo l’ansietà sulle finanze pubbliche francesi, mentre Roma sta migliorando la sua reputazione con gli investitori”.
La spiegazione che FT si dà di questa svolta è nella forte azione di contenimento del deficit pubblico operata con coerenza dal Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che punta a scendere nel rapporto deficit/PIL sotto il 3% il prossimo anno così da uscire dalla procedura di infrazione comunitaria. Una gestione rigorosa della finanza pubblica è indispensabile per un Paese con debito elevato così da pagare meno interessi. Ho calcolato che la discesa dello spread a 80 basis point può significare per l’Italia un risparmio di interessi sul debito tra i 5 e i 6 miliardi l’anno che potrebbero essere spesi in sanità e politiche industriali.
La seconda ragione di questo successo, secondo il quotidiano britannico, risiede nella stabilità del Governo Meloni. L’Italia marca un miglioramento nella stabilità politica del suo sistema. La Banca Mondiale che dà un punteggio sulla stabilità politica dei vari Paesi ha aumentato l’indice per l’Italia dallo 0,33 del 2018 allo 0,50 del 2023 piazzando l’indice della stabilità politica del nostro Paese molto vicino a quello della Germania (0,59) ma più avanti di quello della Francia (0,34) e della Spagna (0,29).
Ebbene su questo fatto dello spread che ha dell’epocale e che aumenta grandemente l’immagine del Paese a livello internazionale e su questo commento così autorevole di FT la grande stampa italiana, i “giornaloni” come si diceva una volta, non hanno prestato attenzione. Un trafiletto sul ‘Corriere’, un trafiletto su ‘Repubblica’, un articolo solamente qualche giorno fa su ‘Il Sole 24 Ore’.